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    La libertà d’informazione è in pericolo

    Secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti la sicurezza dei reporter è sempre più a rischio. E non solo in Paesi come la Siria

    Di Raffaele Pellegrino
    Pubblicato il 17 Feb. 2013 alle 19:01 Aggiornato il 12 Set. 2019 alle 11:47

    La libertà d’informazione è in pericolo

    I rischi maggiori si corrono in teatri di guerra come la Siria e la Somalia o nei regimi autoritari come l’Iran, ma anche in Paesi democratici come la Turchia o il Brasile chi si occupa di informazione lo fa sempre più a rischio della propria incolumità. È il quadro che emerge dal rapporto 2012 del Comitato per la protezione dei giornalisti, che lancia un allarme sulle condizioni di sicurezza dei reporter nel mondo: l’anno scorso, secondo i dati raccolti dall’organizzazione, in tutto il mondo 70 cronisti sono rimasti uccisi in servizio (il 43 per cento in più rispetto al 2011), mentre sono almeno 35 quelli scomparsi.

    Numeri impietosi anche per i giornalisti detenuti: 232, ben 53 in più rispetto all’anno precedente, molti dei quali dietro le sbarre con accuse di terrorismo o di azioni contro lo Stato. Si tratta, sottolinea il Comitato, della cifra più alta dal 1990, quando è stato stilato il primo rapporto. “È stato un anno triste per la libertà di stampa”, ha dichiarato Robert Mahoney, vice direttore dell’organizzazione, nel corso di una conferenza stampa alle Nazioni Unite. “Dal Messico alla Siria, dalla Russia al Pakistan, i giornalisti in prima linea sono vittima di una violenza e una repressione che non ha precedenti”.

    Il rapporto, diffuso giovedì scorso, è corredato per la prima volta da una ‘lista nera’ di dieci Paesi dove, secondo l’organizzazione con sede a New York, la libertà di stampa ha subito nell’ultimo anno le limitazioni più gravi. È il caso della Siria, a cui spetta il triste primato del numero di cronisti uccisi sul campo (28), seguita dalla Somalia (12) e dal Pakistan (7). Ma il regime di Damasco è accusato anche di aver impedito ai giornalisti indipendenti di raccontare le rivolte, ricorrendo ad attacchi informatici e, in alcuni casi, a vere e proprie “torture per ottenere le password dei reporter”. La Turchia, invece, è al primo posto per numero di giornalisti arrestati: 49. Tra loro, precisa il rapporto, ci sono numerosi cronisti curdi, molti dei quali in attesa di giudizio, accusati di sostegno al terrorismo per aver raccontato le attività del Partito curdo dei lavoratori, dichiarato illegale da Ankara.

    Tra i Paesi denunciati dall’organizzazione compaiono anche l’Etiopia, il Vietnam e l’Iran, Paese quest’ultimo dove “i reporter incarcerati patiscono condizioni orribili, tra le quali lunghi periodi di isolamento, mancanza di cure mediche e torture”. In Pakistan, Somalia e Brasile, spiega ancora il rapporto, vige un regime di sostanziale impunità per chi si macchia di crimini contro i giornalisti, mentre in Ecuador e in Russia si assiste a un preoccupante aumento di leggi che consentono ai governi di criminalizzare il dissenso e limitare la libertà d’informazione.

    “Quando i giornalisti sono costretti al silenzio, attraverso la violenza o le leggi, ne usciamo tutti sconfitti”, ha dichiarato Mahoney, “perché i responsabili sono in grado di nascondere i loro misfatti, mettere a tacere il dissenso e privare i cittadini del loro potere”.

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