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    La guerra la scrivono le donne

    Aumenta il numero di giornaliste impegnate nelle zone di conflitto

    Di Silvia Di Cesare
    Pubblicato il 22 Lug. 2014 alle 11:53 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 18:44

    Il giornalismo di guerra è un lavoro per donne. La Primavera araba ha segnato un punto di svolta per i reporter da zone di conflitto, soprattutto rispetto ai corrispondenti freelance.

    Le rivolte scoppiate nei Paesi della sponda sud del Mediterraneo, unite alla crisi economica che ha colpito anche il settore giornalistico, hanno dato vita a quella che la giornalista Susan Dabbous definisce una “primavera dei freelance”.

    È in questo contesto che la presenza femminile sul campo si è imposta. “In questo settore viviamo una parità di genere che non viene messa in discussione”. Se da fuori può impressionare ricevere le notizie da una donna con casco e giubbotto antiproiettile, “da dentro, tra colleghi, non ci poniamo mai il problema di essere donne o uomini”, conclude la Dabbous. 

    Per Barbara Schiavulli, corrispondente di guerra, la professione del reporter in contesti di conflitto ormai “è una professione sdoganata per le donne. Quello che manca, ancora, è che le donne arrivino ai posti di potere”.

    Se ci si discosta dal giornalismo di guerra, in effetti, la posizione delle donne nel giornalismo non appare così rosea: i due terzi dei reporter mondiali, secondo il rapporto della Fondazione mondiale delle donne nei media (Iwmf), sono uomini. La percentuale aumenta ulteriormente se si va a calcolare la quantità di giornalisti nei livelli decisionali: il 73 per cento dei posti di rilievo nelle redazioni mondiali è occupato da uomini.

    In Europa, nonostante aumenti la percentuale di donne nel giornalismo, solo il 32 per cento di esse ricopre posizioni di rilievo, secondo il rapporto del 2011 dell’Istituto europeo per la parità di genere.

    Anche i dati sui rischi che le reporter da zone di conflitto corrono non sono tra i più confortanti. Un quinto delle giornaliste intervistate dall’Iwmf ha dichiarato di aver subito “intimidazioni, minacce o abusi” e il 45 per cento di questi atti si sarebbe verificato sul campo. Lo stesso vale per le molestie sessuali, subite dal 14 per cento delle intervistate.

    “Di sicuro è maggiore la quantità di donne che si sono trovate in situazioni di pericolo”, racconta Barbara Schiavulli. “Ma i rischi sono gli stessi: o salti su una mina, o vieni rapito, o vieni colpito da un proiettile. Non cambia certo il fatto che tu sia donna o uomo”.

    Anzi, contrariamente alla percezione comune, secondo la Schiavulli “in Paesi come quelli musulmani per le donne è un pochino più facile: ti metti un velo in testa e dai meno nell’occhio, o hai accesso alle donne come fonti, cosa che un uomo ha più difficoltà a fare”.

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