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    La “febbre cinese” sbarca in America

    Ecco come la Cina sta influenzando la campagna elettorale americana e la politica asiatica di Obama

    Di Maria Dolores Cabras
    Pubblicato il 30 Ago. 2012 alle 21:34 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 22:37

    La “febbre cinese” sbarca in America

    “Qual è il nome ufficiale delle Isole Senkaku per gli Stati Uniti? Sono le isole Diaoyu o le isole Senkaku? O tutti e due i nomi vanno bene?”. Lo scorso agosto il reporter Ran Wei dell’agenzia di stampa governativa di Pechino, la Xinhua, incalzava così la portavoce del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, Victoria Nuland, durante un incontro con i giornalisti, una provocazione a cui lei aveva ribattuto, non senza imbarazzo, con una risposta giudicata dai cinesi poco esauriente e sfacciatamente contraddittoria. “Noi le chiamiamo isole Senkaku”. No,“non prendiamo una posizione sulle isole”. E, sì, “rientrano nel campo di applicazione dell’articolo 5 del Trattato tra Stati Uniti e Giappone del 1960”.

    Negli Stati Uniti in cui impazza la campagna elettorale per le presidenziali di novembre, la disputa sino-giapponese per gli isolotti vulcanici che costellano lo specchio di mare stretto tra le Ryukyu e Taiwan è diventata un nodo focale per l’amministrazione Obama. No, non solo per quel gravoso articolo 5 del Trattato bilaterale di mutua cooperazione e sicurezza, stipulato nel 1960 tra Stati Uniti e Giappone, che coinvolge pienamente gli americani nella competizione per le isole, fornendo una copertura formale di difesa al governo di Tokyo in caso di “attacco armato contro una delle parti nei territori sotto l’amministrazione del Giappone”.

    C’è molto di più. È la questione asiatica e, ancora più specificamente, la “questione cinese” a governare gli equilibri incerti della campagna presidenziale e a influenzare gli esiti delle prossime elezioni. Obama lo sa, per assicurarsi la vittoria è necessario giocare nel miglior modo possibile la “China card”. D’altra parte, diventare il “primo presidente dell’Asia-Pacifico”, come l’ex ambasciatore in Cina Jon Huntsman Jr. ha definito Barack Obama, era uno degli impegni prefissati già nel 2008 dall’entourage del Presidente. I legami di Obama con l’Indonesia e le Hawaii rientravano coerentemente nella prospettiva di incrementare il soft power degli Stati Uniti nel Pacifico e in Asia, come un valore aggiunto d’eccezione, rinforzando i meccanismi di confidence-building, soprattutto con le economie emergenti del Sud Est asiatico, e frenando le pulsioni egemoniche regionali della Cina.

    Se per tutto il 2008 e il 2009 l’amministrazione Obama si è mostrata conciliante con i leader cinesi (nell’ottobre 2009 il Presidente rifiutò di incontrare il Dalai Lama), dal 2010 fino a oggi ha invece assunto una linea più severa. Nel luglio del 2010, alla 17° riunione ministeriale del Forum regionale dell’Asean, il segretario di Stato americano Hillary Clinton aveva affermato l’esistenza di un interesse nazionale nel rispetto del diritto internazionale nel Mar Cinese Meridionale, indispettendo l’establishment cinese. Recentemente, il segretario alla difesa Leon Panetta ha annunciato l’intenzione di aiutare Tokyo a realizzare un nuovo piano di difesa antimissile, con l’installazione di una sorta di scudo difensivo che metterà al sicuro il Giappone dalle minacce della Corea del Nord.

    Una risposta al governo cinese che ha iniziato ad avanzare silente come grande potenza globale e regionale, mostrando all’occorrenza “i muscoli” con l’invio di motovedette e pattuglie nel Mar Cinese Meridionale e in quello Orientale. O forse, più semplicemente, la progressiva traslazione del baricentro dei nuovi interessi strategici e geopolitici americani verso oriente è lo specchio di una nuova stagione per gli Stati Uniti, che hanno imboccato la via dell’inevitabile regionalizzazione della politica estera concentrandola nel Pacifico. Dall’Iraq e dall’Afghanistan gli americani guardano a est, puntando a rafforzare le alleanze con il Giappone, la Corea del Sud e le Filippine, e proteggendo i principali interessi nazionali.

    A est la strategia è più ampia e i nodi irrisolti in Corea del Nord, la questione taiwanese – ancora aperta-, e i nuovi teatri di conquista nel Myanmar ma anche nel Laos, richiedono un impegno che non può essere procrastinato. L’invio di 2.500 marines a Darwin entro il 2016, nel nord dell’Australia, a soli 650 chilometri dall’Indonesia è il primo segnale americano lanciato a Pechino. E se si tiene conto che questi militari si aggiungeranno ai 50 mila già di stanza in Giappone e ai 28 mila in Corea del Sud, il quadro delle previsioni è ancora più chiaro. Lo scacchiere geopolitico dell’Asia-Pacifico determinerà il futuro degli Stati Uniti. Il Presidente Obama lo aveva ribadito con tono perentorio nel novembre 2011, perché non ci fossero dubbi a riguardo: “Nel 21° secolo gli Stati Uniti d’America sono pienamente coinvolti nella regione dell’Asia-Pacifico, sono una potenza del Pacifico, e noi siamo qui per rimanerci”. We are here to stay.

    Pendolanti tra concorrenza e cooperazione, le relazioni sino-americane hanno inaugurato un nuovo ciclo. Come confermato dall’ultimo report realizzato dal Pew Research Center, stabilire rapporti bilaterali forti con Pechino è una priorità per il 59 per cento dei Democratici e per il 48 per cento dei Repubblicani, ma il 68 per cento di questi ultimi, ossia circa due terzi, sostiene la necessità di adottare il pugno di ferro con la Cina, e ben il 53 per cento dei Democratici è favorevole all’adozione di una linea più dura. In corsa per le presidenziali sia Obama che Romney, chi meno e chi più, promettono agli elettori cambiamenti e correzioni della politica estera degli Stati Uniti con la Cina, forse troppo indulgente.

    Romney attacca il suo competitor proprio sulla “questione cinese”, cercando di trasformare le falle della soft policy di Obama in punti di forza da sfruttare a proprio vantaggio. Dalle colonne del Washington Post Greg Sargent ricorda invece che al vaglio del Congresso c’è un importante disegno di legge sulla valuta cinese, già passato al Senato, che rischia di scatenare una guerra commerciale con Pechino e al quale guardano con favore gli elettori della classe operaia, soprattutto quelli indecisi del Wisconsin e dell’Ohio, stati industriali che hanno sofferto il deficit commerciale degli Stati Uniti con la Cina e addebitano a esso la perdita dei posti di lavoro. Non l’Iran, non la Corea del Nord, un quarto della popolazione americana (il 26 per cento circa) crede che sia proprio la Cina il Paese più pericoloso per il futuro degli Stati Uniti. Gli americani sono affetti dalla “febbre cinese”. Chiamare gli isolotti contesi con il nome giapponese, Senkaku, e affermare che sono tutelati dall’ombrello difensivo del trattato del 1960 senza non prendere alcuna posizione ufficiale rispetto alla loro sovranità, non è una contraddizione. Tutt’altro. È strategia.

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