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    L’ultimo apartheid

    Nel villaggio sudafricano di Kleinfontein un'enclave di bianchi vieta l'accesso ai non afrikaner

    Di Elena Prodi
    Pubblicato il 24 Lug. 2013 alle 16:27 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 23:00

    Kleinfontein è un piccolo villaggio rurale a nord di Pretoria, la capitale amministrativa del Sudafrica.

    Passeggiando per le vie del paese si incontrano solo volti bianchi e nei bar, in banca o in fila alla posta si parla esclusivamente l’afrikaans. Il busto di pietra di Hendrik Verwoerd, ex primo ministro del Sudafrica, considerato il padre dell’apartheid, sorveglia la piazza mentre la polizia ferma e controlla i veicoli che percorrono la strada principale.

    Vent’anni dopo la fine della segregazione razziale nel villaggio di Kleinfontein risiedono i ricordi e i timori dei sudafricani. Per la popolazione nera questi villaggi rappresentano l’eredità marcia del regime d’apartheid.

    Gli abitanti di Kleinfontein lo definiscono un “villaggio culturale”, che permette di preservare le loro radici di matrice olandese. Si difendono dall’accusa di razzismo precisando che non solo i neri, ma anche gli ebrei, i cattolici e tutti coloro che parlano inglese non sono i benvenuti.

    L’inospitalità dell’enclave si è recentemente rivolta contro una coppia di giovani sposi bianchi, ritenuti non abbastanza “afrikaner” per insediarsi nel paese, e contro Andrew Shabalala, un cinquantenne di colore cui è stato impedito di acquistare un’abitazione nel villaggio.

    Tre sono i criteri da soddisfare per essere accolti nella comunità: parlare afrikaans, abbracciare il credo protestante ed essere discendenti dei Voortrekkers, i coloni olandesi che per primi, a inizio ‘800, si addentrarono nei territori sudafricani.

    Durante l’apartheid, il governo bianco degli afrikaners praticava la discriminazione servendosi dei bantustan, territori assegnati alle etnie nere per evitare il contagio delle razze. Oggi, terminato il brutale sistema di segregazione razziale, gli abitanti di Kleinfontein parlano di un processo inverso: la creazione di enclavi bianche risponde alla necessità degli afrikaner di preservare la loro identità sotto il governo dell’African National Congress Party.

    “Abito qui perché fuori non c’è più posto per noi. Non siamo i benvenuti,” commenta Dries Oncke, 57 anni, residente a Kleinfontein. “Ecco perché costruiamo luoghi come questo: gli afrikaners possono sentirsi al sicuro. Ora abbiamo un posto dove poter vivere tranquilli”.

    Il nervosismo attorno alla questione di Kleinfontein riflette la tensione sociale che caratterizza tutto il Paese, composto per l’80 per cento da popolazione nera e per il 20 per cento da bianchi (di cui appena la metà sono afrikaners). Tutti fanno appello alla costituzione del paese, che paradossalmente appoggia la causa di entrambi: garantisce alle comunità il diritto all’autodeterminazione culturale e, al contempo, vieta le pratiche di esclusione sociale.

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