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    L’industria dell’erba

    Adesso che la marijuana è legale, negli Stati Uniti sorge il problema di come tutelare i consumatori e regolamentare il mercato

    Di Alessandro Iacopini
    Pubblicato il 3 Giu. 2014 alle 00:00 Aggiornato il 12 Set. 2019 alle 09:01

    “Il problema dell’erba è che non è mai la stessa: per esempio, se compri la Sour Diesel (un tipo di marijuana) in un negozio e poi la riprendi in un altro, ti sembrerà di provare due tipi di erba molto differenti, anche se sono venduti entrambi sotto la stessa l’etichetta”.

    Per Jon Cooper, di Denver (Colorado), è questa l’incognita che affligge l’industria americana della marijuana. Jon è uno dei tanti ragazzi del Colorado che fino a un paio d’anni girava in maglietta strappata e bermuda, sempre pronto a partecipare a ogni manifestazione a favore della liberalizzazione dell’erba. Oggi va in giro in giacca e cravatta, ha un master in business administration (M.B.A.) in mano e una start up appena creata con cui è pronto a buttarsi a capofitto nel mercato dell’erba legalizzata.

    Un business ancora giovane, ma potenzialmente enorme, se si pensa che il 38 per cento degli americani ha ammesso di aver provato l’erba almeno una volta nella vita e il 7 per cento ne fa regolarmente uso. Inoltre, secondo i dati diffusi dal Marijuana Business Daily, un magazine on line nato a Denver nel 2012 per i professionisti del settore, nel 2013 l’erba ha generato negli Stati Uniti un mercato legale da 1,5 miliardi di dollari e per il 2018 si attende che il volume d’affari creato sfiori quota 6 miliardi di dollari.

    Un settore che però è nato dal nulla e che ha bisogno di essere affinato, standardizzato e regolamentato in ogni aspetto: è necessario creare laboratori di certificazione, norme per le etichette, limiti alla pubblicità.

    Le altre droghe legali, come l’alcool e il fumo, sono passate per un processo di standardizzazione e industrializzazione che ha reso ogni Marlboro uguale all’altra e ogni lattina di Bud uguale all’altra. Per l’erba non è ancora così, anche se inevitabilmente lo dovrà essere presto.

    “In un sistema commerciale strutturato, le regole e le norme devono essere molto strette e precise”, spiega Mark Kleiman, esperto di politiche sulla droga dell’Università della California e consulente dello Stato di Washington, dove la marijuana è stata autorizzata allo scopo ricreativo nel dicembre del 2012. “Se mangi un brownie all’erba, non sei ancora sicuro di quello che stai consumando: la quantità di sostanza all’interno è veramente quella per cui lo hai pagato?”. Secondo un’indagine del Denver Post, no.

    Il quotidiano della capitale del Colorado, insieme a un sito che si occupa solo di marijuana (thecannabist.co), è giunto alla conclusione che c’è ancora troppa incertezza nei prodotti a base d’erba. Ad esempio, secondo l’inchiesta, in ogni barretta a base di marijuana “Star Barz” ci sono in media solamente 0,37 milligrammi di Thc, il principio attivo alla base del potere psicotropico dell’erba, ma la dicitura sulla confezione riporta 100 milligrammi. Uno scarto inimmaginabile per qualsiasi altro settore regolamentato.

    Il disordine della produzione e della vendita è lo specchio della confusione legislativa che ancora vige negli Stati Uniti sul tema della marijuana. Per il governo federale di Washington, la cannabis è tuttora inserita nella lista delle sostanze pericolose che non hanno nessun valore medico. Eppure, in Colorado e nello stato di Washington l’erba ha valore ricreativo, mentre in altri venti stati l’uso delle marijuana è permesso a scopo terapeutico.

    Una dissonanza legislativa che influisce anche sugli investimenti economici nel settore. Se da un lato le economie locali stanno trovando giovamento dalla legalizzazione e molti giovani si lanciano in nuove imprese, dall’altro le incertezze bloccano i potenziali grandi investitori, che temono i possibili ripensamenti dei governi statali e federali.

    Per sbloccare l’impasse legislativo, negli ultimi anni sono nate diverse lobby, come la Drug police alliance, legata al miliardario George Soros, o la National Cannabis Industry Association (NCIA), che quasi quotidianamente si presentano a Washington per convincere l’opinione pubblica e la politica che l’erba non fa male e che, anzi, “la marijuana non è più dannosa dell’alcol”, come ha detto il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama il 19 febbraio scorso.

    “Siamo professionisti rispettabili, facciamo semplicemente il loro lavoro” – spiega Dorian Deslauriers, lobbista della NCIA – “siamo come tutte le altre industrie americane e per questo devono trattarci come tali”.

    Tuttavia, secondo i gruppi contrari alla liberalizzazione della marijuana, l’industria dell’erba sta imitando la strategia messa in campo dai lobbisti del tabacco negli anni Sessanta: all’opinione pubblica il prodotto viene presentato come innocuo, mentre ai politici vengono mostrati i potenziali introiti derivati dalle tasse.

    “Da lobby puramente ideologica, anche quella della marijuana diventerà una lobby industriale”, dice Mark Kleiman, professore di politiche pubbliche alla School of Public Affairs della UCLA, “e tra dieci anni saranno così agguerriti che andranno a Washington per cercare di aggirare le regole e le tasse che ora stanno cercando di ottenere”.

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