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    L’ebola che uccide l’Africa

    Grave epidemia in Guinea, Sierra Leone e Liberia: 1.200 casi, 660 morti

    Di Luigi De Martino
    Pubblicato il 29 Lug. 2014 alle 05:47 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 08:01

    Ha l’espressione affaticata di chi ha dovuto lottare con le unghie e con i denti. Rose Komone, giovane donna originaria del distretto guineano di Guéckédou, è stata la prima fortunata a riuscire a sconfiggere la febbre emorragica ebola.

    La sua terra, all’interno della regione Nzérékoré, ha una storia particolare. È un’ area rurale nella parte sudorientale della Guinea che ha dato asilo a molti rifugiati in fuga dalle guerre civili scoppiate tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila in Costa d’Avorio e Sierra Leone.

    A partire dal 1996, la popolazione in questa parte della Guinea è più che raddoppiata arrivando a contare oltre 300.000 abitanti. Il boom demografico, combinato a una carenza strutturale in termine di standard igienico-sanitari, ha creato una miscela esplosiva che può essere utilizzata insieme ad altri fattori, quali le modalità di trasmissione e l’aggressività del virus, come chiave di lettura per spiegare il proliferare degli episodi epidemici.

    Dal lancio del primo “warning” dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), datato 25 marzo, l’epidemia in pochissimi mesi si è estesa a macchia d’olio in tutto il Paese, finendo col colpire anche gli stati limitrofi della Sierra Leone e della Liberia. Dove ora si contano i maggiori contagi.

    Martedì 15 luglio l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha diffuso i dati ufficiali sull’andamento delle infezioni da virus Ebola in Africa: solo tra l’8 e il 12 luglio sono stati registrati 79 nuovi casi e 65 morti in Liberia e in Sierra Leone. In totale, negli ultimi cinque mesi, le morti in Guinea, Liberia e Sierra Leone sono salite a 660, mentre le persone infette sarebbero circa 1.200. In Guinea è stato registrato il numero più alto: 314 morti.

    Secondo i medici, Rose doveva morire ma il suo corpo ha risposto bene ai trattamenti sintomatici che caratterizzano le prime fasi di cura della malattia, riuscendo cosi a far parte di quel 33 per cento di persone che oggi possono raccontare l’accaduto. Purtroppo però, questo inferno sembra non volerla abbandonare.

    Con la voce rotta dalle lacrime si lascia scappare un “Grazie a Dio sono guarita. Sfortunatamente, ora sono stata colpita da una nuova malattia: la stigmatizzazione della quale sono vittima”. La sua stessa intervista, rilasciata a un emittente radiofonica guineana, è stata fatta dalla vettura che l’ha accompagnata agli studi di registrazione, dato che al telefono le hanno detto “Preferiamo che ci racconti tutto da lì sotto”. Un atteggiamento del genere sembra essere invalidante quasi quanto il virus stesso.

    La popolazione è cosi spaventata dal virus che, nelle ultime settimane, molte famiglie colpite dall’infezione devono fronteggiare problemi simili. È il caso di Aziz Soumah che, insieme a tutti i suoi cari, ha dovuto abbandonare la sua abitazione nell’area suburbana di Conakry dopo la morte del fratello. In questo caso, non vi era nemmeno la certezza che la morte fosse dovuta al virus, ma la tensione è talmente elevata che la gente non vuole correre rischi. La paura nasce dalla peculiarità dell’epidemia: la Guinea non era mai stata colpita dal virus e le aree interessate sono spesso molto distanti tra loro, senza particolari distinzioni tra aree urbane e rurali.

    La trasmissione del virus all’uomo ha sicuramente avuto origine da un contatto iniziale con un animale (un primate, ma anche antilopi o porcospini), che ha in seguito trovato terreno fertile nel tessuto sociale guineano. Per citare un esempio, la Guinea vanta tra le sue specialità culinarie due ricette a base di pipistrello, cucinato arrosto o in un brodo piccante. Il mammifero non accusa in maniera diretta i sinotmi del virus, ma può diventare portatore dell’infezione e contagiare l’uomo. Inoltre, il virus sembra anche in grado di diffondersi attraverso il contatto diretto con oggetti contaminati o con il corpo di defunti.

    Le autorità governative hanno immediatamente imposto delle restrizioni alle cerimonie funebri e stabilito zone di quarantena. I Paesi limitrofi alle aree colpite, invece, hanno riattivato i programmi di sorveglianza epidemiologica, nonostante la cronaca e i successivi casi di infezione registrati in Sierra Leone abbiano mostrato l’incapacità di tali strumenti di porre fine all’espansione del morbo.

    Oltre all’alto costo di vite umane, la situazione rischia anche di danneggiare l’economia dell’area. La London Mining e la African Minerals, due imprese impegnate in attività estrattive in Guinea e Sierra Leone, preoccupate dalle notizie provenienti da questi Paesi, hanno diminuito il personale operante in loco, lasciando sul posto solamente lo stretto indispensabile. Le stesse autorità locali stanno prendendo provvedimenti che potrebbero risultare nocivi per gli interessi economici dei Paesi contagiati, come ad esempio la chiusura delle frontiere tra Guinea e Senegal, avvenuta a più riprese, che ha portato a violente proteste da parte di commercianti di ambo le parti.

    Il rischio è che le cicatrici lasciate nel cuore e nelle tasche delle popolazioni colpite siano molto più profonde di quelle inizialmente preventivate. Ebola si diffonde attraverso il contatto con il sangue e gli altri fluidi corporei dei pazienti infetti, porta febbre, vomito, disturbi intestinali e nei casi più gravi emorragie interne. Il tasso di mortalità oscilla tra il 50 e l’89 per cento a seconda del ceppo virale.

    L’epidemia è tra le più gravi mai registrate e preoccupa non solo l’Africa ma anche il resto del mondo. I sistemi sanitari di Sierra Leone, Liberia e Guinea sono carenti, mancano i medici e non sono sempre chiare le procedure per contenere il contagio. In molti casi i familiari nascondono i parenti malati perché temono che possano morire da soli negli ospedali, o perché sono convinti di poterli curare utilizzando la medicina tradizionale.

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