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    L’anti-europeo

    Nessuno riesce a fermare il partito britannico anti-Unione Europea alla vigilia delle elezioni per il parlamento europeo

    Di Davide Lerner
    Pubblicato il 21 Mag. 2014 alle 00:00 Aggiornato il 11 Set. 2019 alle 00:46

    Quel 24 febbraio 2010, Herman Van Rompuy aveva appena concluso nel parlamento di Bruxelles il suo discorso d’insediamento come primo Presidente dell’Unione Europea.

    All’improvviso la voce squillante di un Europarlamentare ruppe l’atmosfera ingessata: “Ci avevano detto che avremmo avuto come presidente una gloriosa figura politica di livello globale, un uomo di cotanta stoffa da rappresentare 500 milioni di europei sul palcoscenico mondiale”, disse il politico ammiccando ironico ai colleghi.

    “Temo invece che ci sia toccato tu, che hai lo stesso carisma di uno straccio bagnato e l’aspetto dell’ultimo degli impiegati bancari. La domanda che voglio farti è: chi saresti tu? Chi ti ha votato? Qual è la tua legittimità democratica?” (video).

    Il grigio sermone del Presidente sulle virtù dell’integrazione europea aveva superato il limite di sopportazione di Nigel Farage, capo del “Partito Indipendentista del Regno Unito” (Ukip), formazione anti-europeista e nazionalista inglese.

    Allergico alla retorica della politica convenzionale (“io dico quello che penso in un inglese semplice, i politici che si affannano per mantenere l’equidistanza mi sembrano una barzelletta”) e animato da “una sorta di zelo religioso da crociata” contro l’odiatissimo “club di Bruxelles”, quel Nigel Farage è oggi un fiume in piena che sta trascinando via con sè l’elettorato dei partiti inglesi tradizionali.

    L’ascesa iniziata con le amministrative del maggio scorso, quando l’Ukip si assicurò la preferenza di un quarto degli elettori, ha portato la formazione anti-UE solidamente in cima ai sondaggi per le europee del 22 maggio prossimo.

    Secondo gli ultimi rilevamenti riportati da “The Guardian” l’Ukip sarebbe in testa con il 29 per cento dei voti, mentre i laburisti (26 per cento) e i conservatori (23 per cento) continuano a perdere terreno. I liberal-democratici di Nick Clegg, in prima linea nel dibattito sull’Europa come “party of in” (partito per restare) contrapposto all’Ukip, il “party of out”, seguono come fanalino di coda con il 10 per cento.

    “Mi sono quasi strozzato con il bacon quando sono venuto a sapere della proposta di Clegg di fare un dibattito televisivo sulla UE” ha scherzato Farage, “stavo gustando una colazione tipicamente inglese, di quelle che non se ne trovano a Bruxelles”. Si presenta come l’“uomo comune”, frequentatore assiduo di pub e fumatore accanito, burlone impertinente ma anche campione d’autoironia. Abile oratore capace di entrare in sintonia con la gente, Nigel Farage sta mettendo sotto-sopra il sistema politico inglese alla vigilia delle europee e a un anno dalle elezioni politiche.

    I Tories di David Cameron patiscono la concorrenza del suo Ukip, un partito che fa emergere con chiarezza sentimenti anti-Europa e anti-immigrazione latenti nelle loro stesse file. Un sondaggio Yougov mostra come il 45 per cento degli attuali sostenitori Ukip abbia votato Tory nelle elezioni politiche 2010, un deflusso che ha costretto il governo Cameron a promettere un referendum sull’uscita dall’Unione entro il 2017 e a stringere sull’immigrazione.

    L’83 per cento dell’elettorato Ukip pensa infatti che l’immigrazione sia “la questione più importante che il paese deve affrontare” e Nigel Farage non perde occasione di attaccare la libertà di movimento all’interno dell’Unione: “l’altra sera a Londra ho preso il treno da Charing Cross, andando verso fuori.

    Ci siamo fermati a London Bridge, New Cross, Hither Green, e soltanto dopo Grove Park ho cominciato a sentire qualcuno che parlasse inglese. Mi fa strano? Puoi dirlo forte!”. Farage (il quale, per inciso, ha una moglie tedesca assunta come sua segretaria alle spese dei contribuenti) insiste sulla pericolosità di rinunciare al controllo delle proprie frontiere nel pieno della crisi economica europea: le “orde” d’immigrati spesso criminali, ladri di posti di lavoro, parassiti di welfare e sussidi statali, rappresentano la chiave narrativa per la crescita del suo partito.

    Non a caso, oltre al nocciolo duro di elettorato nazionalista iper-conservatore, l’Ukip raccoglie anche il sostegno di una fetta di “working class” ex laburista intimidita dalla crescente competizione lavorativa, come la Lega negli anni della sua ascesa in Italia. “Vedo Farage molto vicino alla Lega Nord”, conferma Jonathan Hopkin, professore di politica comparata alla London School of Economics “ma condivide con Grillo il populismo anti-establishment e la condanna indiscriminata dei partiti tradizionali”.

    “Come Grillo”, continua il professore, “può permettersi l’irresponsabilità dei movimenti di protesta, liberi dai requisiti pragmatici di un partito di governo: penso per esempio alle conseguenze economiche dell’uscita dall’Unione, che costringerebbe la City finanziaria a dislocare nel continente”.

    Eppure Farage dovrebbe conoscerle a fondo le necessità della City: nato nel Kent nella casa di fianco a quella che fu di Charles Darwin, oltre alla passione per l’alcol ereditò dal padre il mestiere di broker proprio nel cuore finanziario della capitale. A poco più di vent’anni era già inserito nell’ambiente e nel 1985, dopo una lunga giornata di contrattazioni, fu investito mentre usciva ubriaco da un pub londinese. Fu la lotta fra la vita e la morte che seguì l’incidente, sostiene lui, a farlo “riflettere” e sposare la “nobile causa” dell’uscita dall’UE, oltre che la sua prima moglie, l’infermiera dell’ospedale.

    Da allora l’istrionico ma brillante Nigel ha cominciato la scalata verso la leadership del partito, nonostante il fondatore del primo nucleo dell’Ukip fosse scettico sulle sue prospettive: “è molto divertente e simpatico a livello personale” diceva di lui Alan Sked negli anni novanta, “ma è difficile lavorare con uno che è sempre ubriaco, ignorante e maleducato, e che manda al diavolo chiunque non sia d’accordo con lui”.

    Nonostante la sua “dittatura stalinista” all’interno del partito, come l’ha definita l’ex europarlamentare Ukip Marta Andrease, ad oggi Farage non è ancora riuscito a confezionargli un’identità coerente che prescinda dalla sua figura. L’armata Brancaleone dei suoi devoti compagni di partito continua a metterlo in imbarazzo con dichiarazioni contraddittorie, demenziali e talvolta xenofobe che raccontano di un movimento eterogeneo e sconclusionato unito solo dall’amore per il proprio capo.

    Si va dall’assessore Davide Silvester secondo cui “le recenti inondazioni sono la punizione divina per la legalizzazione dei matrimoni gay” all’europarlamentare Gerard Batten che vuol far firmare un codice di comportamento a tutti i cittadini musulmani. Il suo collega Godfrey Bloom ha poi definito le donne “sgualdrine che non puliscono mai dietro al frigo” e i paesi che ricevono aiuti “bongo-bongo lands”, mentre il muratore dello spot sull’invasione della manodopera a basso costo dall’est-europa ha detto di voler creare il sito “islam-out-fuk.co.uk”.

    Persino Farage, in genere restio ad accettare le critiche, ha ammesso di dover fare un po’ di pulizia nel partito eliminando gli “squilibrati”. Il leader ha poi rinnegato il manifesto delle politiche 2010, campagna durante la quale rischiò la vita schiantandosi con un velivolo leggero che portava in coda uno striscione “Ukip”.

    Il documento sconfessato prevedeva “un tetto agli stranieri nelle squadre di calcio inglesi per fermarne il declino”, divisa obbligatoria per i taxisti, “ridipingere i treni con colori tradizionali” e taglio immediato dell’IVA sulla birra.

    Lo stesso Farage le ha definite “idiozie”, ma ha detto che non ha intenzione di formulare un nuovo programma politico prima delle europee per concentrarsi sulla fuga dai “burocrati non eletti di Bruxelles”: “oltre a tutto il resto devono pure imporci le rinnovabili, quei ridicoli zeloti del cambiamento climatico; quei mostri anti-estetici buoni solo ad ammazzare pipistrelli e deturpare i nostri paesaggi (i parchi eolici, ndr.) vorrei farli saltare tutti in aria!”.

    L’Ukip, che nel 2006 David Cameron definì una “manciata di svitati, eccentrici e razzisti latenti” ma che adesso è costretto a inseguire, spaventa tutti con la sua travolgente avanzata. Tutti dietro a Nigel, indomabile paladino della sovranità nazionale, al grido di “we want our country back!”.

    L’articolo di Davide Lerner è stata pubblicato sull’Espresso n.19 del 16 maggio 2014, pag. 80 e 81

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