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    La guerra più lunga al mondo

    Il reportage di Fabio Polese per TPI sul conflitto tra l'etnia karen e forze birmane che prosegue da quasi 70 anni nonostante il nuovo corso voluto da Aung San Suu Kyi

    Di Fabio Polese
    Pubblicato il 20 Dic. 2016 alle 12:28 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 19:25

    OO KRAY KHEE (BIRMANIA) – La stagione delle piogge è appena finita. Il fiume di fango dei giorni scorsi lascia spazio alla terra di color rosso che caratterizza questo posto incantato nell’est della Birmania. Una terra rossa d’argilla e di sangue, perché questa è una zona di guerra.

    Siamo nel villaggio di Oo Kray Khee, nel cuore del Karen State, roccaforte del Karen national defence organization (Kndo), il fronte di resistenza dell’etnia karen nel paese. “Siamo costretti a combattere”, spiega il generale Nerdah Mya, figlio di Bo Mya, leggendario eroe della resistenza scomparso nel 2006.

    “Dobbiamo difendere la terra dei nostri avi, la nostra gente e le nostre tradizioni”, aggiunge. I karen lo fanno dal 1949, combattono contro lo stato birmano il conflitto più lungo al mondo. E il meno conosciuto.

    La nazione a cui i karen aspirano era stata promessa loro alla fine del secondo conflitto mondiale da Aung San, padre dell’attuale leader Aung San Suu Kyi. Ma la sua caduta per mano dei generali ha infranto il sogno, condannando i karen a essere un popolo invisibile in una terra che abitano dal 730 a.C., cioè da quando sono arrivati dalla Mongolia e dal Tibet.

    Si entra in questa zona al confine tra Birmania e Thailandia clandestinamente, attraversando la fitta vegetazione della giungla, lasciando la strada principale fatta di pericolosi tornanti e checkpoint dell’esercito thailandese. Black area, l’ha definita il governo birmano. Una zona nera dove i giornalisti non possono entrare ma dove tutto è possibile.

    Perfino ora che la politica dovrebbe aver inaugurato un nuovo corso. Nel novembre 2015 il National league for democracy (Nld), il partito guidato dal premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, ha vinto le elezioni. Eppure la guerra prosegue, e per una ragione puramente economica.

    “La verità è che i nostri territori sono pieni di risorse naturali che noi non siamo disposti a far sfruttare selvaggiamente dalle grandi compagnie internazionali. Proprio per questo vogliono eliminarci”, afferma Nerdah Mya mentre ammiriamo la natura che circonda il villaggio.

    Da una parte c’è chi vuole difendere terra sacra e tradizioni. Dall’altra chi uccide per soldi e potere. Gli interessi sono, purtroppo, parte integrante di ogni conflitto. Lo sappiamo. E lo sanno bene soprattutto i karen che combattono da tanto, troppo tempo.

    — Leggi anche: La storia dei rohingya, una delle minoranze più perseguitate al mondo

    I generali che hanno controllato per decenni il paese si sono arricchiti sfruttando i territori etnici. Nell’ottobre 2015 un rapporto scritto da Global Witness, organizzazione investigativa con base a Londra specializzata sul tema delle risorse naturali, sosteneva che il solo business della giada aveva portato nelle tasche della famiglia di Than Shwe, padre-padrone della Birmania dal 1992 al 2011, più di 220 milioni di dollari nel biennio 2013-2014. Insieme a lui, negli affari legati alla pietra preziosa, c’erano altri nomi di ex generali ed ex ministri.

    Ma non solo. Nel documento si legge anche che l’esercito regolare sarebbe legato al mercato del narcotraffico. Non è un caso che la Birmania sia il secondo produttore mondiale di oppio dopo l’Afghanistan. Anche qui, stiamo parlando di un affare da miliardi di dollari. Lo stesso narcotraffico che molte etnie stanno combattendo. I karen, infatti, per ragioni etiche, sono contrari alla coltivazione, alla vendita e al consumo di qualsiasi tipo di droga.

    “La situazione non cambierà mai finché i generali avranno potere”, spiega il figlio del leggendario eroe della resistenza karen. E di potere ne hanno ancora tanto, anche se il mondo grida a un nuovo corso del paese sotto la guida del Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi.

    L’attuale governo, proprio nel giorno dell’insediamento, aveva promesso di dare “priorità al raggiungimento di un cessate il fuoco su scala nazionale, per interrompere i conflitti che proseguono da molti anni tra le minoranze etniche e il governo centrale”.

    Qui, però, sembra tutto come prima: “Non è cambiato niente con le elezioni vinte da Aung San Suu Kyi”, conferma il numero uno del Kndo. “Il Tatmadaw (l’esercito birmano, ndr) un mese dopo le votazioni ha lanciato una violenta offensiva contro gli shan, i kachin, i palaung e ovviamente contro di noi”.

    — Guarda anche: Scoprire la Thailandia

    Il punto è che la carta costituzionale birmana non solo riserva ai militari il 25 per cento dei seggi parlamentari indipendentemente dall’esito delle elezioni, ma permette anche loro di controllare il ministero degli Interni, della Difesa e per gli Affari di confine. Quest’ultimo – non è una casualità – è proprio quello che si occupa delle zone abitate dalle diverse etnie.

    Inoltre, la vecchia giunta è parte del Consiglio per la difesa e la sicurezza nazionale, che può in qualsiasi momento bloccare o modificare le leggi considerate pericolose per l’unità e la sicurezza del paese.

    La caccia dell’esercito ai karen prosegue implacabile. Almeno 500mila di loro si sono trasformati in profughi interni dopo aver abbandonato i propri villaggi. E oltre 130mila sono quelli finiti nei campi profughi disseminati nella vicina Thailandia.

    Uomini, donne, bambini, segnati nel corpo e nello spirito dalle violenze viste e subite. A tanti, tantissimi, le mine anti-uomo hanno strappato braccia e gambe. “Stavo rientrando nel villaggio dopo una giornata di lavoro nella mia piantagione di mais, quando all’improvviso ho sentito un dolore fortissimo e sono svenuto”, racconta Moh Shank, un contadino che in questo conflitto ha perso una gamba. “Da quel giorno”, spiega indicando la protesi malandata che sostituisce l’arto, “sono rimasto così”.

    Quasi settant’anni di stillicidio non hanno, però, fiaccato la resistenza dei karen. Armi in pugno, continuano a lottare. “Non deporremo le armi finché il governo birmano non riconoscerà la nostra nazione”, giura Nerdah Mya mentre carica il suo fucile d’assalto.

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