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    L’esercito del salario minimo: gli italiani fuggiti a Londra che non hanno fatto fortuna

    Marco Sconocchia, fotografo torinese trasferitosi a Londra, racconta per parole e immagini la sua esperienza di barista che cerca di sopravvivere con il minimum wage

    Di TPI
    Pubblicato il 5 Ott. 2016 alle 17:26 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 22:54

    Marco Sconocchia, fotografo italiano domiciliato a Londra dal 2012, ha realizzato per TPI un resoconto sia scritto che visivo della sua esperienza come lavoratore che cerca di sopravvivere al salario minimo nella giungla metropolitana londinese. Nella photogallery le sue foto che ritraggono chi come lui e tanti altri italiani espatriati nel Regno Unito vive in questa condizione, e qui sotto il suo racconto autobiografico:

    Da quando sono arrivato a Londra ho sempre lavorato in pub e
    ristoranti.

    Dai 24 ai 28 anni ho servito alcool a diverse migliaia di
    persone, e in questi quattro anni non sono mai stato avanzato di grado, non ho
    mai avuto un aumento di stipendio, e le mie mansioni sono le stesse dal giorno
    1 a oggi, 1825 giorni dopo.

    Se dovessi fare un calcolo dei soldi che ho fatto guadagnare
    alla compagnia per cui lavoro in relazione allo stipendio che mi hanno pagato,
    probabilmente mi incazzerei e non tornerei a lavoro, ma questo lavoro mi serve
    almeno quanto io non servo alla compagnia della quale sono un dipendente.

    Ho lavorato con centinaia di persone diverse: giovanissimi, over
    40, perfetti idioti, artisti, lobotomizzati, professori, architetti, fotografi,
    molti dei quali italiani.

    Sono arrivato a Londra con l’idea che avrei lavorato in uno studio
    fotografico e ho sempre pensato che avrei lasciato il lavoro al pub alla fine
    del mese. Nel frattempo i miei colleghi cambiavano velocemente, alcuni
    rimanevano di più e diventavano “senatori” come me, ma alla fine tutti andavano
    via e postavano frasi esultanti su Facebook del tipo: “Finalmente un vero
    lavoro! Avrò i weekend liberi!”.

    Spesso io e il mio amico Andrea ci diciamo che siamo soldati
    nella “legione del minimum wage”.

    I miei conoscenti ogni tanto commentano la mia situazione
    lavorativa: “Sei ancora al pub? Non ti sei stancato? Non hai proprio voglia di
    crescere!”.

    Se fai un lavoro che ti permette di guadagnare il minimo da
    molto tempo, normalmente sei visto come uno dal quoziente intellettivo minimo, senza
    fantasia o spirito di iniziativa, inadatto ad una posizione migliore.

    La mia situazione è simile a quella di partenza di un
    qualsiasi italiano che arriva nel Regno Unito senza una specializzazione o
    senza una laurea che ti dia la possibilità di trovare subito un lavoro ben
    pagato.

    Lavorare
    nella ristorazione è uno degli impieghi più facili da trovare a Londra: catene
    di ristoranti, catene di bar, catene di pub, e in generale ristoranti,
    ristoranti dappertutto.

    L’inglese
    medio non ha molta voglia di cucinare, e spesso preferisce mangiare fuori,
    quindi servire ai tavoli è un lavoro facile da trovare, non serve un alto
    livello di inglese ed è meno alienante che lavorare in cucina.

    Lo
    stipendio varia abbastanza: se lavori in un ristorante di medie pretese, la
    paga è all’incirca 1.200 sterline lavorando 50 ore settimanali. Stipendio basso,
    affitti alti, poco tempo, molta fatica.

    Nemo propheta in patria, e allora migliaia di
    persone rimpinzano la manodopera a basso costo del Regno Unito, e non importa
    nulla vestirsi da cameriere all’estero, tanto l’idea è “Imparo l’inglese e poi
    trovo il lavoro della mia vita, pago le prime bollette, metto da parte un po’
    di soldi e inizio un lavoro ‘vero’”.

    Al
    pub non sono mai stato particolarmente “bravo”: ai miei superiori non è mai
    sembrato mi interessasse molto e quindi non mi hanno mai dato nessuna
    responsabilità precisa; il mio inglese non è mai stato particolarmente male, gente
    che lo parlava peggio di me è stata promossa con facilità: tutto dipende da una
    cosa che gli inglesi chiamano attitude,
    ovvero l’atteggiamento, il sorriso che mostri la mattina quando entri o la sera
    quando chiudi.

    Ogni
    primo venerdì del mese ricevo 1.200 sterline, pago l’affitto della mia camera
    singola, che ne costa 660 al mese, l’abbonamento della metropolitana 120 al
    mese, le sigarette 6 al giorno, la spesa mensile per il cibo 100. In pochissimo
    tempo ho dilapidato la maggior parte dello stipendio e non ho fatto nulla per
    me stesso che non sia correlato al lavorare o mantenersi vivo. Se si lavora
    full-time nella ristorazione si deve mettere in conto di lavorare molto, guadagnare
    abbastanza e spendere moltissimo.

    È
    deprimente pensare di dover stare in una cucina o in una sala gran parte della
    propria vita e non potersi permettere nulla mentre si stampano conti più alti
    del tuo stipendio settimanale.

    Londra
    è perfetta per fare carriera nella ristorazione o per coprire le proprie
    frustrazioni: ho visto pseudo-registe/scrittrici frustrate lanciarsi nel buco
    nero del minimum wage uscendo al lato
    opposto come un po’ meno sottopagati asini della fattoria degli animali di
    Orwell.

    “Ma
    dopo cinque anni sei ancora pagato il minimo? Che problemi hai? Non pensi al
    tuo futuro?”.

    Chi
    esce dalla zona grigia di sopravvivenza è restio a ricordare il passato, e in
    molti casi la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio.

    Vivere
    a Londra al salario minimo vuol dire 1.500 pound
    il primo mese in cui affitti una casa, fra affitto e deposito, vivere con in
    casa altre sette persone in qualche zona dormitorio, oppure dividere la camera
    con qualcuno in zone decenti. Vuol dire spagnoli che friggono tortillas alle 9 di mattina, vuol dire
    possibili accoltellamenti davanti alla porta di casa, vuol dire non avere soldi
    per andare al ristorante, vuol dire non avere tempo per fare la spesa e
    rimanere con in frigo un pacco di orecchiette dalla Puglia e la crema per i
    piedi di un tuo coinquilino. Vuol dire la carta Oyster della metro senza credito
    e correre per andare a lavoro, vuol dire l’utopia di mettere da parte
    abbastanza soldi per una macchina, vuol dire alcol economico e mal di testa la
    mattina.

    Si
    parte pensando di risparmiare soldi e ci si ritrova a spendere ogni centesimo
    in qualche catapecchia di zona 3, passando la giornata fra lavoro,Tube e Skype con la famiglia: “Ti vedo
    dimagrito… Ma mangi?”, “Beato te che sei in Inghilterra, qui in Italia si fa la
    fame! Avessi anche io il coraggio di partire…”, “Italia, pizza, mafia, Berlusconi,
    bella vita”.

    Lavorare
    nella ristorazione è un climax di orari serrati, doppi turni, chiudere la sera
    e svegliarsi la mattina con la faccia di uno che ha dormito cinque ore, vuol
    dire main away del tavolo uno e
    attenzione al complain del tavolo 14,
    all’inizio vuol dire sognarsi i clienti la notte e svegliarsi per incontrarne
    di nuovi da sognare.

    Molte
    volte le persone della mia età parlano dall’altra parte del bar e mi guardano
    come un alieno, scandiscono le parole e con un sorriso ironico mi chiedono: “Quanto
    tempo è che lavori qui?”. Quando gli dico quanto vengo pagato, sbattono gli
    occhi increduli.

    I
    primi mesi, quando credevo che la mia carriera da cameriere sarebbe durata
    pochi mesi, mi sentivo portato per una carriera artistica, ero convinto di
    essere sprecato per questo impiego e non avrei mai visto il mio futuro dietro
    un bancone a sopportare persone scortesi, insulti razzisti e manager semianalfabeti più giovani di me
    urlarmi improperi dopo essersi fatti una striscia di cocaina in bagno.

    Lentamente,
    con il passare del tempo il mio punto di vista è iniziato a cambiare: ho visto gli
    stessi manager semianalfabeti
    lavorare 50-60 ore alla settimana con un solo giorno libero senza lamentarsi,
    guadagnandosi promozioni e aumenti, mentre dall’altra parte del bar ho
    ascoltato persone che lavorano in banca lamentarsi dei prezzi alti della birra
    e dei loro orari di lavoro. Ho realizzato che gli stessi che reputavo “emarginati”
    del mondo del lavoro hanno delle capacità che io non ho, e anche se sono pagati
    7,20 sterline all’ora non saltano un turno e lavorano anche nel giorno off se richiesto, non dimenticano mai di
    mettere dell’acqua fresca sul tavolo dei clienti appena arrivati o di salutare
    con un sorriso a 32 denti quando questi se ne vanno. Per questo fanno carriera.

    Vivere
    col salario minimo a Londra è difficile, e può capitare di rimanerci impantanati
    a lungo. Ogni tanto ti viene in mente che potresti tornare a casa dove il minimum wage nemmeno c’è, ma dove i
    prezzi sono più bassi e la qualità di vita è apparentemente superiore, dove
    lavorativamente sei più che un piccolo granello di sabbia.

    Arrivare
    alla soglia dei trenta ed essere pagato 7,20 sterline lorde l’ora è una goccia
    di sudore freddo che scende giù per la schiena.

    Se
    contate di venire a Londra per migliorare la vostra posizione nel mondo dovrete
    fare i conti con la vostra soglia di sopportazione, magari trovandovi ad essere
    sfruttato da un connazionale che vi pagherà in nero e vi tratterà da schiavo, oppure
    dovendovi uniformare alle stupide regole di una grande compagnia per la quale
    sarete una cifra in un database, e normalmente ci sarà un periodo variabile nel
    quale anche voi, come me e Andrea, rimpinguerete la “Legione del minimum wage”.

    Vivere
    col salario minimo in una delle città più care d’Europa è una prova di
    coraggio, di passione, di ingegno, di fatica, ma è un’esperienza dalle
    molteplici lezioni di vita, e non solo una voce di cui vergognarmi nel mio CV
    di fotografo.

    Ogni
    tanto sento dire: “Ho lavorato nella ristorazione a Londra: nulla mi fa paura”.

    E
    poi Andrea, male che vada, magari anche la classe operaia va in paradiso.

    * Marco Sconocchia, nato a Torino nel 1988, ha studiato
    fotografia all’istituto Franco Balbis di Torino. Dopo aver lavorato in vari
    studi fotografici si è appassionato a reportage e storie di comunità. 
    Vive a Londra dal 2012, è freelance e fondatore di f/27, un collettivo di fotografi e giornalisti.

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