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    La caduta di Re Bibi: Netanyahu è l’unico vero perdente delle elezioni in Israele

    Benjamin Netanyahu

    La composizione del nuovo governo israeliano resta un enigma: ma, comunque vada, per Netanyahu è stata una débâcle

    Di Andrea Dessi e Flavia Fusco
    Pubblicato il 23 Set. 2019 alle 08:35 Aggiornato il 23 Set. 2019 alle 14:25

    Israele elezioni: stallo post-voto, ma Netanyahu ha comunque perso

    ISRAELE ELEZIONI – La composizione del nuovo governo israeliano resta un enigma. Dopo aver governato ininterrottamente per dieci anni, tredici se si conta anche il suo primo mandato alla fine degli anni ‘90, Benjamin Netanyahu, detto Re Bibi, dovrà confrontarsi con la seconda sconfitta elettorale in cinque mesi, una débâcle che rischia di mettere la parola fine alla carriera politica del più longevo primo ministro d’Israele dai tempi di Ben Gurion.

    Sconfitto dal suo principale rivale politico – l’ex capo di stato maggiore Benny Gantz che ha formato un’alleanza centrista di nome Blue and White catturando 33 seggi –, il Likud di Netanyahu chiude la tornata elettorale con 31 seggi e per Re Bibi sembra essere iniziato un definitivo conto alla rovescia.

    L’entità della sconfitta è tale che il primo ministro ha annullato la partecipazione all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, palcoscenico da sempre a cuore a Netanyahu, se non altro per consentire preziosi photo-op con i leader mondiali, a partire dall’alleato statunitense.

    Più che una vittoria, quella di Gantz si avvicina ad un pareggio. Se è vero che sarà probabilmente a lui che il presidente Rivlin si rivolgerà per l’ardua impresa di formare un governo, d’altro canto è pur vero che la coalizione post-voto creata da Netanyahu (formata da partiti dell’estrema destra nazionalista e religiosa insieme ai partiti ultraortodossi) può contare su 55 seggi, contro i 44 di una possibile coalizione guidata da Gantz (che vedrebbe il suo Blue and White unito agli altri partiti centristi come il Labor Gesher e il Democratic Union).

    Questo rompicapo di matematica elettorale non avrà facile soluzione. Sarà il presidente Rivlin a decidere, e quest’ultimo non perderà l’occasione di sottolineare che l’incarico di formare il governo va al leader del partito con più seggi, Benny Gantz.

    In seguito alle elezioni di aprile, infatti, fu Netanyahu a ricevere tale incarico (avendo conquistato un seggio in più rispetto al Bule and White). Ma c’è di più, perché tra il presidente israeliano e Re Bibi non corre buon sangue.

    Nel 2014, infatti, Netanyahu aveva cercato in più modi di ostacolarle Rivlin nella sua corsa alla presidenza. Centrale sarà ancora una volta la figura di Avigdor Lieberman, leader del partito nazionalista laico Yisrael Beiteinu che ha raggiunto 8 seggi in parlamento.

    Già alle elezioni di aprile Lieberman aveva voltato le spalle all’ex-alleato Netanyahu, negandogli l’unico seggio mancante per raggiungere la maggioranza di 61, costringendolo quindi a indire nuove elezioni.

    Ora come ad aprile, la questione che divide i due leader è quella religiosa, legata all’estensione della leva militare obbligatoria alle comunità ultraortodosse israeliane e alla necessità di una più equa distribuzione delle spese di stato tra enti religiosi e laici, a partire dall’educazione e dagli aiuti sociali.

    La sconfitta di Netanyahu è ben più consistente di quella che emerge dalle operazioni di scrutinio elettorale. Il premier non rischia solo politicamente, ma soprattutto personalmente. Il tempo scorre, e il 2-3 ottobre è in programma l’udienza preliminare per le accuse di corruzione, frode e abuso di fiducia.

    È per questo che già nei mesi antecedenti alle elezioni dello scorso aprile, Netanyahu aveva negoziato con i suoi alleati di destra e ultraortodossi, concentrandosi sulla necessità di approvare una legge sull’immunità che lo avrebbe salvato dall’imbarazzo di un apparizione in tribunale.

    La vertiginosa virata a destra che aveva funzionato nelle elezioni del 2015, ma che già lo scorso aprile non ha dato i risultati sperati, non è riuscita neppure questa volta ad assicurare a Netanyahu il ruolo di premier.

    In questa cornice va interpretata la proposta di annessione delle colonie israeliane nella Valle del Giordano promessa da Netanyahu immediatamente prima delle elezioni del 17 settembre. L’obiettivo era quello di attirare qualche voto in più da destra, ma non è bastato.

    Netanyahu non è neppure riuscito a guadagnarsi lo spazio mediatico che sperava (le TV israeliane hanno interrotto la copertura del suo intervento una volta che è divenuto chiaro l’obiettivo politico-elettorale dell’annuncio).

    La dichiarazione, invece, ha avuto come effetto quello di infiammare gli arabi di Israele e non, mettendo in imbarazzo l’alleato statunitense Trump e, ancor di più, i partner arabi d’Israele, in primis la Giordania e l’Arabia Saudita.

    A livello interno, i partiti arabi israeliani infatti si sono alleati nella Lista Araba Unita, che invece era corsa disgiunta alle elezioni di aprile. Questo ha portato i palestinesi con diritto di voto – più del 20 per cento della popolazione israeliana – a partecipare in massa alle ultime elezioni aumentando così di più di dieci punti percentuali l’affluenza araba alle urne rispetto allo scorso aprile (in cui si registrò il 49 per cento).

    Sono così 13 i seggi conquistati dalla Lista Araba Unita. Essendo però caduta nel vuoto l’apertura che il leader della lista aveva fatto al partito di Gantz prima del voto, la loro sembra piuttosto una vittoria di Pirro che lascia l’amaro in bocca.

    Ancora una volta gli arabi d’Israele saranno esclusi dal governo. Detto questo è probabile che la Lista Araba si unisca agli altri partiti di centro, indicando Gantz al presidente Rivlin per la formazione di un governo, una mossa calcolata per bloccare Netanyahu, ma che difficilmente vedrebbe gli Arabi far parte del governo.

    La situazione, dunque, non è cambiata dallo stallo politico successivo alle elezioni dello scorso aprile, e come in un déjà-vu, non ci sono i numeri per formare un governo. Gli scenari futuri sono essenzialmente due: un governo di unità nazionale che non ha spazio per l’ingombrante ego di Netanyahu (né per gli arabi d’Israele) o una impasse politica che non vede altra soluzione che portare gli israeliani per la terza volta alle urne in meno di un anno.

    Nella prima e più verosimile eventualità, ma non per questo meno problematica, il partito di Gantz si unirebbe con il Likud e Yisrael Beiteinu formando un governo in cui Lieberman farebbe da kingmaker.

    Il problema Netanyahu rimane, e si paventa la possibilità di una suddivisione del mandato di primo ministro in due periodi tra Gantz e Netanyahu. Neppure questa versione metterebbe però d’accordo i due leader, entrambi indisponibili ad accettare che l’altro prenda per primo le redini del potere.

    Per Gantz significherebbe un imbarazzante passo indietro per via delle sue promesse elettorali, mentre per il leader del Likud, rinunciare per primo al posto di premier avrebbe un prezzo ben più caro, quello di un eventuale condanna giudiziaria.

    L’unica eventualità che potrebbe consentire una veloce risoluzione in questo senso sarebbe quella di un accordo in cui si approvi l’immunità per Netanyahu in cambio di una sua uscita di scena dal Likud, uno scambio di cui è probabile si parlerà molto nelle prossime settimane.

    Nel secondo caso, la crisi politica di Israele si farebbe ancor più profonda trascinando il paese in uno stallo prolungato con conseguenze difficili da immaginare nell’immediato. Tale scenario però pare improbabile, poiché ad opporsi è il presidente Rivlin che farà di tutto per favorire l’emergere di una coalizione governativa stabile e solida.

    In entrambi i casi il vero perdente rimane comunque Netanyahu. È proprio l’intrecciarsi di questioni politiche e personali che fa temere un terzo scenario, che più che un lampo a ciel sereno sembrerebbe in continuità con la logica che sussiste dietro l’escalation di azioni militari israeliane nei confronti di obiettivi iraniani in Iraq e Siria, e più recentemente contro il Libano e la Striscia di Gaza.

    Va ricordato in tal senso anche il tentativo da parte di Netanyahu poco prima delle elezioni di avviare una massiccia operazione militare nella striscia di Gaza senza l’apposito coinvolgimento gabinetto di sicurezza.

    Questi episodi, se letti in un contesto più ampio e alla luce dei rischi a cui va incontro Netanyahu, rendono tutt’altro che improbabile l’emergere di un worst case scenario. Dopo aver tentato in tutti i modi di restare al potere, in una schizofrenia che lo ha visto violare leggi elettorali, promuovendo dichiarazioni contraddittorie e razziste, alzare l’asticella delle tensioni è forse l’unica strada percorribile per un Netanyahu che non intende farsi da parte.

    In linea con questa strategia, ma fortemente in contrasto con lo spirito di fine calcolatore che ha contraddistinto la politica estera di Netanyahu, ci si potrebbe aspettare un’impulsiva escalation militare, che sia con Hezbollah o Hamas poco importa, l’importante è che possa dare a Netanyahu il tempo per ritardare ancora le udienze preliminari, rinviando le consultazioni e la formazione di un nuovo governo.

    La posta in gioco è troppo alta per una resa indolore di Re Bibi. Più che un punto fermo, queste elezioni sembrano aver aggiunto un enorme punto interrogativo a una situazione già di per sé incerta. A pagarne il prezzo non è solo Netanyahu, ma anche e soprattutto i palestinesi e la regione mediorientale, che rischiano di diventare palcoscenico per un ultimo disperato tentativo di Netanyahu di rimandare l’inevitabile, provocando nuove crisi per distrarre dai propri guai giudiziari.

    Per conto dei palestinesi, invece, sono le parole di Saeb Erekat, capo negoziatore e segretario generale dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), a rimarcare il significato del voto, ricordando come “la fine di Netanyahu non vorrà dire la fine dell’occupazione”.

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    *Andrea Dessì è responsabile di ricerca nel programma Mediterraneo e Medioriente dell’Istituto Affari Internazionali (IAI)
    *Flavia Fusco è iscritta all’ultimo anno nel corso di Relazioni e Istituzioni dell’Asia e dell’Africa presso l’Università degli Studi di Napoli l’Orientale ed è attuale stagista IAI.
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