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    In Israele gli ebrei non sono tutti uguali

    La comunità di ebrei etiopi in Israele conta 135mila persone, ma non gode delle stesse opportunità del resto della popolazione

    Di Paola Lepori
    Pubblicato il 7 Apr. 2016 alle 12:28 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 21:23

    Mentre, tra le perplessità locali e internazionali, Israele si adoperava per evacuare 19 ebrei yemeniti – e una Torah su pergamena vecchia di circa 500 anni che gli Houthi ritengono essere patrimonio del popolo yemenita e forse nemmeno a torto – da un paese devastato da un anno di guerra civile e attanagliato da una crisi umanitaria catastrofica, gli israeliani etiopi scendevano in piazza per protestare contro presunte discriminazioni nei loro confronti, ed è lecito chiedersi quanto reale e tangibile sia il fenomeno del razzismo (o della discriminazione etnica all’interno della stessa religione) nello stato ebraico.

    La comunità etiope israeliana conta circa 135 mila persone. L’immigrazione dall’Etiopia verso Israele, che concede a tutti gli ebrei la possibilità di richiedere la cittadinanza e trasferirsi nel paese (attraverso la Legge del Ritorno), è cominciata alla fine degli anni Settanta, quando i servizi segreti israeliani trasferirono circa settemila ebrei etiopi attraverso i campi rifugiati del Sudan, nei quali si erano ammassati in fuga da guerra, carestia e persecuzione. 

    Negli anni Ottanta e Novanta, Israele organizzò due operazioni segrete, l’Operazione Mosè (1984-1985) e l’Operazione Salomone (1991), per il trasferimento aereo di circa 20 mila membri della comunità ebraica etiope. Negli anni successivi, l’immigrazione continuò in maniera meno marcata. 

    Solo in seguito, è diventato evidente che, in realtà, l’arricchimento del panorama etnico israeliano non è stato affatto un processo armonioso. Gli ebrei etiopi lo sanno bene e in Israele hanno subito razzismo e discriminazioni, tanto nel campo delle opportunità economiche e lavorative, quanto nel campo dell’istruzione

    In particolare, molti bambini sono stati costretti ad accontentarsi di un sistema scolastico all’insegna della segregazione. Per non parlare dell’istruzione secondaria e terziaria: meno della metà degli studenti ottiene il diploma e solo il 26 per cento raggiunge i risultati scolastici necessari all’ammissione all’università, contro il 56 per cento della popolazione israeliana in generale.

    Nel 2013, Haaretz riferiva che il 52 per cento delle famiglie etiopi in Israele vivevano sotto la soglia di povertà: per loro, i tassi di disoccupazione sono più alti e gli stipendi più bassi di circa il 35 per cento del resto della popolazione.

    Ma la discriminazione verso gli ebrei di colore assume anche altre forme: padroni di casa che rifiutano di affittare le loro proprietà o autorità locali che negano licenze di matrimonio, come nella città di Petah Tikva.

    Poi c’è l’emblematica vicenda della cittadina israeliana di origine etiope Pnina Tamano-Shata, avvocato, giornalista nonché deputata del partito liberale secolarista Yesh Atid tra il 2013 e il 2015 e veterana delle forze armate del paese, cui nel 2013 venne negato di donare il sangue.

    Negli anni Novanta, in effetti, era emerso che la banca del sangue israeliana aveva regolarmente distrutto il sangue donato dagli israeliani etiopi per paura che fosse infettato dal virus dell’Hiv.

    E ci sono gli episodi di violenza, come il pestaggio nella primavera del 2015 di un soldato delle forze armate israeliane di origine etiope, Damas Fekade, da parte di due poliziotti in un sobborgo di Tel Aviv (nota bene: il soldato era in uniforme).

    L’evento innescò diverse proteste cui la polizia reagì con granate stordenti, cannoni ad acqua e altre armi anti-sommossa non proprio innocue. Gli scontri causarono feriti sia tra la polizia che tra i dimostranti, decine dei quali furono arrestati. 

    (qui sotto il video del pestaggio)

    All’epoca, il primo ministro Benjamin Netanyahu incontrò Fekade e i leader della comunità etiope di Israele per rassicurarli e si stagliò contro il razzismo: “Dobbiamo essere uniti contro il fenomeno del razzismo, per denunciarlo ed eliminarlo”.

    Ma ecco l’ultimo capitolo. Lo scorso autunno, Israele aveva approvato un piano per trasferire in Israele gli “ultimi” ebrei etiopi. Il 15 novembre 2015, il governo aveva votato all’unanimità di consentire, sull’arco di cinque anni, il trasferimento di oltre novemila Falash Mura, i discendenti degli ebrei etiopi costretti a convertirsi al cristianesimo, che da anni aspettavano in campi di transito in Etiopia di ricongiungersi ai propri parenti già in Israele. Il permesso di stabilirsi in Israele sarebbe stato condizionale alla conversione all’Ebraismo.

    Il governo ha in seguito cancellato il piano. Il 7 marzo l’ufficio del primo ministro ha comunicato ai deputati che non ci sarebbe stato nessun trasferimento per ragioni di budget.

    La decisione ha causato, come prevedibile, un’ondata di proteste: circa duemila ebrei etiopi hanno sfilato fino agli uffici del primo ministro domenica 21 marzo 2016, proprio il giorno in cui sono atterrati all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv alcuni ebrei yemeniti evacuati con un’operazione segreta da Rayda e Sana’a.

    Ancora una volta, la comunità etiope di Israele si è trovata a manifestare contro la discriminazione che li colpisce, denunciando come il paese incoraggi l’immigrazione dall’Europa e dagli Stati Uniti, ma lasci indietro i congiunti dei cittadini israeliani di origine etiope.

    Tra i manifestanti anche il deputato del Likud Avraham Neguise, egli stesso un immigrato etiope, che sta boicottando i voti parlamentari da quando è stata data comunicazione del blocco del piano di trasferimento – situazione penosa per un esecutivo che si regge sulla risicata maggioranza di un unico seggio.

    Tuttavia, a sorprendere non è tanto la decisione di cancellare il trasferimento di queste novemila persone, quanto la scelta iniziale di accoglierle, se si considera che Israele continua a cercare di contenere la popolazione etiope anche con metodi decisamente discutibili quali la somministrazione semi-coatta di farmaci anticoncezionali.

    Nel 2008 vennero alla luce testimonianze sconcertanti sul fatto che la sanità israeliana stesse somministrando alle donne etiopi il Depo Provera, un contraccettivo assunto tramite iniezioni ogni tre mesi che alcuni medici preferiscono evitare per via dei suoi effetti collaterali, tra cui l’osteoporosi.

    (Curiosamente, il Depo Provera è associato con la pratica del governo apartheid sudafricano di somministrarla, sempre coercitivamente, alle donne di colore per limitarne la fertilità).

    Nel 2010 venne pubblicato un rapporto dell’organizzazione Woman to Woman di Haifa nel quale si sosteneva che l’uso del farmaco fosse cresciuto notevolmente negli ultimi anni e che il 57 per cento dei consumatori in Israele erano donne etiopi, nonostante la comunità etiope rappresenti appena l’1,7 per cento della popolazione.

    Le attiviste all’epoca non avevano alcun dubbio rispetto alle ragioni dietro alla scelta di limitare la popolazione della comunità etiope: si trattava di puro e semplice razzismo e di discriminazione verso chiunque non sia un ebreo bianco ashkenazita.

    Una tendenza alla discriminazione su base etnica, quindi, non si abbatte solo – e in modo eclatante – sulla popolazione palestinese, ma anche su questi cittadini di serie B cui Israele nega l’uguaglianza dei diritti.

    Per non parlare della discutibile politica nei confronti dei rifugiati provenienti dal continente africano che hanno il torto di non essere ebrei. Al premier Netanyahu si attribuisce infatti l’idea che i migranti clandestini provenienti dall’Africa “minacciano l’esistenza stessa di Israele come stato ebraico e come stato democratico”.

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