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    Come cambia il ruolo della Cina nell’era Trump

    L'intervista di TPI a Paola Paderni, docente di Storia e istituzioni della Cina all’università degli Studi di Napoli L'Orientale

    Di Andrea De Pascale
    Pubblicato il 8 Feb. 2017 alle 13:19 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 22:01

    Paola Paderni insegna “Storia e istituzioni della Cina” e “Politica e istituzioni della Cina contemporanea” all’università degli Studi di Napoli L’Orientale.

    Ha parlato con TPI del ruolo che avrà la Cina nell’era Trump; della possibilità che Pechino prenda il posto degli Stati Uniti quanto a governance globale; di cosa aspettarsi dal Congresso Nazionale del Partito comunista cinese, appuntamento importantissimo del 2017; e infine dei successi e dei fallimenti dei primi quattro anni di mandato del presidente Xi Jinping. 

    Che ruolo avrà la Cina nell’era Trump?

    Il discorso che Xi Jinping ha tenuto a Davos fa pensare a una Cina che è pronta a riempire il vuoto lasciato dagli Stati Uniti, soprattutto se si osserva quanto sta accadendo in queste ultime settimane. La liquidazione del Tpp (Trans-Pacific Partnership) da parte statunitense può senz’altro rappresentare un’opportunità per Pechino, un modo per rafforzare la sua leadership nell’Asia del Pacifico.

    Il ruolo della Cina nel Regional Comprehensive Economic Partnership, che unisce il paese all’Asia del Sudest, l’India, il Giappone, la Corea del Sud, l’Australia e la Nuova Zelanda, e la One Belt One Road, che vede la Repubblica Popolare Cinese al centro di un’area che parte dall’Asia e arriva fino all’Europa passando per l’Africa, vanno proprio in questa direzione.

    Inoltre, se pensiamo che il Tpp era sempre stato visto da parte cinese come un’arma geopolitica puntata contro i propri interessi nazionali o comunque come uno strumento che l’avrebbe sfavorita, sembrerebbero esserci le condizioni affinché la Cina possa assumere un ruolo più importante di quello che ha avuto fino ad oggi.

    Ciò detto, non significa che la Cina possa o voglia assumere questo ruolo di leadership mondiale.

    Qual è la sua opinione al riguardo?

    Credo che la Cina non solo non possa ancora assumere questo ruolo di leadership, ma non lo voglia nemmeno.

    Nonostante il sistema cinese sia comunque relativamente aperto, ci sono ancora troppe chiusure. E cosa ancora più importante, il Paese necessita di numerose riforme.

    In molti ritengono che questa determinata congiuntura storica possa spingere la Cina proprio verso quella serie di riforme di cui il Paese, ormai da tempo, ha bisogno. Per adesso, Pechino è concentrata a massimizzare il suo livello di governance regionale.

    I problemi interni sono ancora molti e gli interrogativi in ambito internazionale non mancano. C’è bisogno che la Cina superi questa situazione di incertezza prima di pensare ad un suo ruolo di governance globale.

    Queste secondo me saranno anche un po’ le sfide che il Paese dovrà affrontare in questo 2017, che poi è l’anno soprattutto del 19esimo Congresso Nazionale.

    Cosa si aspetta da questo appuntamento? Crede che Xi Jinping ne uscirà ulteriormente rafforzato?

    È certamente uno dei momenti più importanti per il partito e la sua leadership. Come sappiamo, il congresso si svolge a fine anno, ma va detto anche che si tratta soltanto dell’atto formale di un processo che è già iniziato e che continuerà lungo tutto il 2017, un processo che richiede molto tempo e non è sempre facile.

    L’incertezza sul fronte internazionale, con una presidenza americana che non ha ancora veramente chiarito fino a che punto vuole spingersi nei confronti della Cina, può giocare un ruolo positivo per Xi Jinping, serrando i ranghi del partito e assicurando una maggiore coesione.

    Xi ha ottenuto sicuramente dei successi in alcuni campi. Penso, ad esempio, alla lotta alla corruzione che lo rende comunque ben voluto da parte della popolazione. Allo stesso tempo, però, molte delle riforme che sono state annunciate anche nel corso dei plenum precedenti non sono ancora andate a buon fine, e spesso dietro ci sono resistenze interne molto forti.

    Il che vuol dire che alla fine Xi Jinping non è ancora così forte o comunque non quanto viene dipinto solitamente, come unico e vero capo del partito. Proprio questa incertezza esterna potrebbe rappresentare un’occasione in vista del congresso. L’afflato nazionalista contro un rivale come gli Stati Uniti può avvicinare anime differenti del partito.

    Un nervo scoperto nei rapporti tra Pechino e Washington risulta essere la disputa sulla sovranità nel Mar Cinese Meridionale. Teme una escalation su questo fronte?

    I motivi di scontro possono essere i più disparati. Trump accusa la Cina di non essere stata abbastanza risoluta nei confronti della Corea del Nord.

    Lo scudo aereo in difesa della Corea del Sud, che gli Stati Uniti progettano contro la possibilità di attacchi da parte della Corea del Nord, è stato sempre visto dalla Cina come una misura di contenimento presa nei suoi confronti.

    Sono moltissime le situazioni da cui potrebbero nascere dei conflitti. È difficile fare previsioni in questo senso.

    Ci sono stati momenti di grande tensione tra i due Paesi nati in seguito ad eventi inattesi, come il bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado nel 1999. Fattori inaspettati che potrebbero divenire motivo di scontro.

    Recentemente, sul sito Chinafile.com è stato pubblicato un articolo dal titolo The Chairman, Trump and Mao. L’autore mette a confronto il neo presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il Grande Timoniere Mao Zedong. Da esperta della materia, cosa ne pensa di questo parallelo?

    È un articolo scritto da Geremie R. Barmé, un intellettuale molto fine e profondo conoscitore della Cina. Credo che Barmè ci voglia far capire qualcosa in più sulla figura di Mao, piuttosto che su quella di Donald Trump.

    È una sorta di grido di dolore, nello stile ironico di Barmé, per denunciare la sua disillusione nei confronti sia dell’Oriente che dell’Occidente. Il messaggio finale è questo: siamo malmessi da una parte e dall’altra. È carino il modo in cui mette a confronto i tweet di Trump con le citazioni di Mao.

    Tempo fa, fu fatto un paragone al cui centro vi erano Mao e Xi Jinping. In che misura, secondo lei, Xi Jinping ha ripreso modalità e dinamiche tipiche degli anni del maoismo?

    Ritengo che il paragone non tenga. È vero che Xi Jinping tende volutamente ad accentrare il potere, ma lo fa nella consapevolezza che il partito era ed è un organismo con molti centri di potere che fa fatica a restare unito in modo coerente.

    Quindi l’unico modo è quello di provare a tenere tutto insieme per evitare che questa frantumazione rischi di far saltare l’intero sistema. Sicuramente va detto che è molto più visionario e nazionalista rispetto ai suoi predecessori.

    È uno che sa sfruttare bene i meccanismi di potere del partito e ha certamente una sua visione politica. Deve, però, fare i conti con le molte altre anime del partito che non sempre sono schierate al suo fianco.

    Ha un ruolo forte, in questo senso sembra assomigliare alla figura di Mao. Certamente, l’esito di questo accentramento, è stato anche una maggiore repressione, questo è sotto gli occhi di tutti. Da questo punto di vista si è tornati indietro rispetto agli anni scorsi.

    Ma la Cina è sempre stata così, fa un passo avanti e poi uno indietro, poi ancora uno avanti e poi un altro indietro. Ma non è questo che rende Xi Jinping necessariamente vicino a Mao. È chiaro che può ricordare delle dinamiche di altri tempi, ma non dimentichiamoci che sistemi come quello cinese si basano proprio su modalità di controllo di questo tipo.

    In ultimo, che idea si è fatta di Xi Jinping e del suo operato dopo questi primi quattro anni di mandato? Quali sono, secondo lei, i principali successi e i principali fallimenti della sua amministrazione?

    Da una parte, Xi Jinping è sicuramente riuscito a tenere unito il partito sulla necessità di ripulirsi al suo interno. Dal punto di vista della sua progettualità, bisogna aspettare che passi altro tempo prima di poter capire veramente che cosa hanno potuto significare o che cosa vogliono veramente significare le riforme.

    Ci sono in gioco tante cose, la nuova normalità, la transizione verso un modello di sviluppo alternativo. Bisogna poi capire fino in fondo cosa voglia dire questo “governare secondo la legge”, che per la prima volta è stato anche il tema di uno dei plenum.

    Sul piano politico, anche qui credo che sia troppo presto affermare che la leadership al governo non è più quella consensuale degli scorsi anni. L’accentramento è sicuro, ma che tutto questo vada a discapito di quella che viene chiamata l’istituzionalizzazione del partito, quindi un progressivo mettere delle regole, è ancora troppo presto per dirlo.

    — Leggi anche: Quali sono gli interessi della Cina in Siria?

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