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    In viaggio nella Siria liberata dai ribelli

    Vi portiamo nella Siria liberata dai ribelli. Tra bombardamenti, distruzione e morte

    Di Maria Elena Tanca
    Pubblicato il 8 Giu. 2012 alle 21:21 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 23:04

    Siria liberata dai ribelli

    “Era la prima volta che tornavo in Siria da due anni. Ho pianto di felicità da quanto mi manca la mia patria. Però solo per qualche minuto: poi mi sono reso conto che dovevamo spostarci dal punto in cui eravamo perché era abbastanza pericoloso”. Maher è un ragazzo siriano di 28 anni. Studia ingegneria meccanica in una città del nord Italia. Non mi dice il suo vero cognome, so solo che online si fa chiamare “Maher Battagliero”. È partito a fine luglio con due giornalisti alla volta della Siria ed è rientrato intorno a metà agosto. Ma già vorrebbe tornare là: l’amore per la sua terra è troppo grande. I famigliari sono rimasti in Siria: la madre, il padre, i fratelli. Sono originari di Hayan, un villaggio in periferia di Aleppo. I maschi della famiglia fanno parte di uno dei gruppi di ribelli che combattono nella zona. “Sei arrivato in Siria passando per la Turchia?”, gli chiedo. “Siamo entrati illegalmente, ma meglio partire direttamente dall’arrivo in Siria: non si parla di quelle strade”. Ha paura, preferisce essere prudente, non vuole che si sappia in giro in che modo si entra nel Paese. Per uno straniero recarsi lì da solo è difficile: lo fermano ai posti di blocco dell’Esercito siriano libero (Esl), deve spiegare qual è il suo lavoro, perché sta andando in Siria. “Non gli fanno niente, però lo cacciano, perché c’è molta paura degli informatori e delle spie del regime. È necessario essere con una persona di fiducia”. La prima città siriana in cui Maher e i giornalisti arrivano è A’zaz, vicino al confine con la Turchia. “Mio padre, informato dai cugini del mio arrivo, viene a prenderci con uno dei miei fratelli”. È notte, tra le undici e le dodici.

    Salgono in macchina, percorrono una zona buia: non c’è elettricità, l’unica fonte d’illuminazione è data dai fari dell’auto. Tutt’intorno, rischiarate dalla debole luce degli anabbaglianti, case e alberi di pistacchio e ulivo. L’auto corre ad alta velocità, attraversando le stradine della zona: “Sono molto strette, ci può passare solo una macchina alla volta e in un’unica direzione”. Pigiano sull’acceleratore per arrivare il prima possibile: la paura che da un momento all’altro possa iniziare un bombardamento è forte. “La zona a nord di Aleppo è già stata liberata – mi spiega Maher -, ma i bombardamenti continuano”. Sulla terraferma non si vede nemmeno un soldato di Bashar. Chi è restato teme soprattutto gli aerei militari, gli elicotteri e l’artiglieria. “Ci imbattiamo in un posto di blocco dell’Esercito siriano libero. Ci chiedono solo di dove siamo. Gli rispondiamo ‘del paese di Hayan’. Ci salutano con rispetto”. Finalmente Maher arriva a destinazione. Il paese è quasi deserto: la maggioranza delle persone è scappata. “Hayan ha tra i 20 e i 25 mila abitanti, ma sono rimaste meno di 20 persone. Impossibile contarle con esattezza, perché al nostro arrivo alcune sono nascoste dentro casa”. Ormai è al sicuro e la stanchezza si fa sentire: decide di andare a dormire. Nella zona i bombardamenti sono il pane quotidiano: non c’è una strada sulla quale non siano cadute due o tre bombe. “Di solito iniziano verso le otto o le nove di sera e durano fino alle quattro del mattino”. Il giorno dopo l’arrivo preparano l’iftar, il pasto che alla sera rompe il digiuno del Ramadan. All’improvviso sentono un colpo in lontananza: viene dalle basi vicino ad Aleppo. “Un colpo molto debole. Significa che i bombardamenti stanno iniziando”.

    Aspettano qualche secondo: “Se la bomba cade dentro il paese vuol dire che hanno intenzione di bombardare qui, se invece cade lontano il bombardamento sarà altrove”. Per questa volta gli va bene. Quando il bombardamento avviene dentro Hayan, la gente scappa via, con l’auto o con qualsiasi altro mezzo. Il rischio di essere colpiti è elevato. Ma c’è un vantaggio ad allontanarsi dalle case: “Quando le bombe cadono sulle strade danneggiano di più, perché l’asfalto si sgretola in mille pietruzze, molto pericolose per le persone. Quando cadono sulla terra, invece, il danno è minore”. In alcuni casi scappare è praticamente impossibile: “Se le bombe sono tante e ci colgono alla sprovvista, restiamo in casa”. È meglio rifugiarsi negli edifici a più piani, perché proteggono meglio. Ma nei paesi di campagna come Hayan la maggior parte delle case è a un piano: “Qui una bomba che cade su una casa significa la morte subito”. Maher mi mostra una foto: un’abitazione con un buco di quasi un metro di diametro sul tetto e una macchina completamente distrutta. Segno che lì è caduta una bomba. Nonostante la paura, le persone cercano di vivere normalmente. Hanno ancora la forza di scherzare. Anzi, è l’istinto di sopravvivenza che le spinge a ridere e divertirsi. “La gente ha una grande forza interiore. A volte, per esempio, si scherza su qualcuno scappato in modo un po’ buffo”. Neanche Maher si dà per vinto. Nonostante le difficoltà, decide di portare a termine due delle tante cose che è andato a fare lì: compilare una lista degli orfani dei “martiri” della rivoluzione e fare una stima delle case danneggiate dal regime.

    Il primo progetto è una collaborazione con Aya Homsi, attivista italo-siriana e simbolo delle seconde generazioni di siriani in Italia. “Quando Aya mi ha parlato dell’intenzione di creare una rete d’adozione a distanza degli orfani siriani, ho pensato di compilare una lista aggiornata per tutte le associazioni interessate. Molte vorrebbero aiutare, ma non sanno come, non hanno i dati, il numero reale degli orfani”. Maher decide di appoggiarsi a una rete di attivisti in loco. “Attivisti dei media”, li chiama lui. Sono i più informati su quello che accade nell’area: “Quando succede qualcosa, quando viene bombardata una zona, c’è una persona che fa arrivare la notizia a una Skype camera o a una Skype room di un altro attivista all’estero. È un lavoro di collaborazione tra siriani dentro e fuori dallo Stato. Quelli all’estero si occupano di scrivere le notizie nella lingua dei giornali”. Skype è lo strumento più utilizzato, benché sia bloccato dal server dello Stato. Ci vuole un programma per bypassare il blocco del servizio ma, a parte questo, è il mezzo più sicuro. Altre volte gli attivisti usano Facebook. Quando la rete internet è bloccata, ricorrono al telefono. Molti di loro non capivano niente di nuove tecnologie: “I ragazzi che vivono nelle campagne di Aleppo non sono come quelli delle città. Non conoscono tutti i software o i social network. Li abbiamo aiutati, insegnando loro come si carica un video su YouTube, come ci si mette in contatto con le persone all’estero”.

    I centri degli attivisti gli forniscono i primi dati sui “martiri”. Determinare il numero esatto degli orfani, però, si rivela più difficile del previsto, perché molte famiglie sono scappate. Maher fa una ricognizione della zona delle campagne di Aleppo: bussa di porta in porta, parla con la gente che incontra per strada, nella speranza che qualcuno ricordi quali famiglie sono andate via. Mi mostra una tabella: sono indicate le informazioni su ciascun orfano, l’indirizzo, la situazione scolastica, le condizioni di salute, ma soprattutto di quanti soldi al mese ha bisogno. Per ogni zona c’è un responsabile con il compito di far arrivare i sussidi. Nel suo soggiorno in Siria, Maher porta a termine un altro compito: fare una stima dei danni alle case e definire quanto denaro è necessario per ricostruirle. “Quasi il 65 per cento delle case di Hayan è distrutto o danneggiato. La maggior parte è bruciata, in quasi tutte si vedono i segni delle bombe”. Non è rimasta nemmeno la farmacia: “L’unica del paese è completamente distrutta e in modo molto strano. Non so cos’abbia fatto contro le forze di Assad per esser ridotta così, ma è rimasto solo il cartello stradale con la scritta ‘Farmacia’”. Nella zona a nord di Aleppo le medicine scarseggiano, le cliniche sono concentrate nei paesi in cui i bombardamenti sono più rari. Anche i medici sono pochi: “Ne ho incontrato solo uno e doveva occuparsi di un’area molto vasta”.

    Nelle case ancora abitabili mancano l’acqua e l’elettricità: la vita è scomoda. “Per comprare il cibo si può andare in alcuni paesi più al nord, dove fanno una sorta di mercato”. A volte c’è chi chiede da mangiare agli altri, ma “per alcuni è addirittura difficile chiedere una mano”. Maher si imbatte nel padre di due “martiri”. L’uomo gli racconta la storia di uno dei figli, un comandante di un gruppo dell’Esercito siriano libero, soprannominato “il sergente tigre”. “Il suo vero nome era Alaa Mansur Oso. Ha combattuto nella zona a nord di Aleppo. Era un uomo forte e soprattutto credeva sinceramente nella sua causa”. Ormai sono passate due settimane. I giornalisti che Maher ha fatto entrare in Siria sono già andati via. Anche per lui è tempo di saluti. Ripercorre a ritroso la strada fatta per arrivare in patria. Questa volta, però, deve fermarsi per un paio d’ore lungo il confine perché “c’è tensione a causa del gran numero di profughi in fuga dal Paese”. Alla fine riesce ad arrivare in Italia. È qui che lo conosco. Maher, oltre a compilare le liste, ha fatto altre cose. Quali siano non può dirlo. Quando gli chiedo se abbia preso parte ai combattimenti, nicchia: “Mmmm, di solito non si raccontano queste cose, specialmente in Europa”. Mi conferma di aver assistito a un’esecuzione: lui dice nel mese di luglio. Probabilmente questa non è la prima volta che torna a casa da due anni a questa parte. “Quindi non puoi dirmi se hai veramente partecipato ai combattimenti?”. “ No. Dopo la caduta del regime potrò spiegarti meglio”.

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