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    Il Pakistan dei fratelli Hafiz

    Due fratelli e due diverse interpretazioni dell'Islam. Gli Stati Uniti alle prese con il difficile rapporto con il Pakistan

    Di Tommaso Natoli
    Pubblicato il 12 Nov. 2012 alle 16:19 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 22:05

    Il Pakistan dei fratelli Hafiz

    Questa storia parla di due persone. La prima è Hafiz Mohammad Saeed, 62 anni, capo religioso di Jamaat-ud-Dawah (‘Partito della verità’) di Lahore, Pakistan, una delle organizzazioni islamiche più attive nel campo socio-assistenziale. A poche ore dal passaggio dell’uragano che la settimana scorsa ha flagellato la costa est degli Stati Uniti, Saeed ha fatto sapere che la sua organizzazione era pronta a inviare medici volontari, cibo e medicinali. “Ogni musulmano ha il dovere religioso di aiutare la popolazione di un Paese in difficoltà”, ha sostenuto. Niente di particolarmente rilevante quindi, se non il fatto che dal 3 aprile scorso il governo di Washington offre una ricompensa di 10 milioni di dollari a chi scelga di collaborare alla cattura di Saeed.

    Secondo le intelligence occidentali, infatti, l’attività umanitaria di Saeed servirebbe da copertura per un’altra organizzazione islamica da lui guidata: Lashkar-e-Taiba (LeT – ‘L’esercito dei puri’), catalogata come terroristica nelle ‘liste nere’ del Consiglio di sicurezza Onu e bandita nello stesso Pakistan. Saeed è arrivato nei primi anni Ottanta in Arabia Saudita grazie a una borsa di studio. Dopo aver preso parte alla resistenza dei mujaheddin afghani contro l’Armata rossa, intorno al 1990 si è stabilito con la sua organizzazione nelle valli pakistane del Kashmir, da dove ha organizzato una serie di attacchi alle truppe di frontiera indiane. Oggi predica la guerra all’Occidente e considera la decennale presenza americana in Afghanistan come il più grande di tutti i mali. Washington e Nuova Delhi accusano il suo ‘LeT’ di aver organizzato, con il sostegno dei servizi pakistani, i dieci attentanti simultanei che paralizzarono il centro di Mumbai nel novembre del 2008. 72 ore di panico e terrore che portarono alla morte di 166 persone e terminarono con il sanguinoso blitz per la liberazione dell’hotel Taj Mahal.

    L’altra persona al centro di questa storia è Hafiz Muhammad Masood, 54 anni, suo fratello. Teologo di formazione, si è laureato in economia politica alla Boston University, dopo aver raggiunto gli Stati Uniti nel 1987 grazie a un visto studentesco. Per circa 10 anni è stato l’imam della moschea di Sharon, cittadina del Massachussets, con annessa Chevrolet familiare in classico stile statunitense. Masood è un Hafiz, un guardiano, titolo onorario conferito a coloro che sono riusciti a memorizzare tutti i 6.236 versetti che formano il corpus coranico. Ha lavorato per mesi al fianco del rabbino della sua comunità per promuovere il dialogo interreligioso e la comprensione tra diverse culture.

    Nel 2008 è stato obbligato a rientrare in Pakistan dopo 21 anni, per alcune irregolarità nelle procedure per l’ottenimento del visto. Aveva da poco cominciato a collaborare all’Islamic Center del New England, un posto di lavoro che avrebbe garantito una vita tranquilla a lui, a sua moglie e ai suoi otto figli, di cui tre cittadini statunitensi. Oggi, a pochi metri dalla stessa moschea dove il fratello maggiore è solito lanciare i suoi proclami d’odio contro Stati Uniti, India e Israele, racconta della sua vita in America con malcelata nostalgia. “Credetemi, per molti aspetti io amo lo stile di vita americano,” ha raccontato qualche giorno fa a Richard Leiby, inviato del Washington Post a Lahore. “Le persone sono molto ragionevoli e aperte. Portare avanti la mia attività religiosa è stato estremamente piacevole”.

    Masood si considera vittima del pregiudizio anti-islamico. Più volte interrogato dagli agenti federali, che cercavano di stabilire i legami con il fratello maggiore, ha affermato di aver scoperto dell’esistenza di “Jamaat-ud-Dawa” e “Lashkar-i-Taiba” soltanto grazie ai giornali. La storia di questi due uomini rappresenta il rapporto contraddittorio che Pakistan e Stati Uniti hanno avuto negli ultimi dieci anni. Una relazione altalenante costruita sui rispettivi interessi nazionali ma costellata da sfiducie reciproche e tensioni latenti. La condizione dei due fratelli è quella di un Pakistan ‘a due facce’ in bilico tra il ruolo di nemico giurato e quello di fedele alleato: una situazione che sia gli americani che gli stessi pakistani preferirebbero chiarire al più presto. Resta da vedere quale direzione prenderanno gli eventi futuri, se quella indicata dallo spirito conciliativo di Masood o da quello guerreggiante di Saeed.

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