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    “Il meglio deve ancora venire”

    Obama incarna il trionfo di un melting pot imperfetto ma inesorabile. È un uomo del terzo millennio e lo si vota "perché non si può fare altrimenti"

    Di Giorgio Ferrari
    Pubblicato il 12 Nov. 2012 alle 11:40 Aggiornato il 12 Set. 2019 alle 11:47

    Il meglio deve ancora venire

    The best is yet to come. Lo preannuncia con un sorriso amarognolo Barack Obama a un’America profondamente divisa mentre brilla di lampi azzurrini l’Empire State Building e a Chicago si fa festa. Ma è una festa diversa da quella del 2008, quando si faticava ad attraversare quell’oceano di folla che fluiva quasi incredula gridando “Yes We Can”. “Oggi – dice Catherine Meyer, attivista della prima ora a New York – bisogna rimettere insieme i pezzi di un mosaico che si è frantumato”. Ha ragione. Dietro l’angolo di una vittoria ai punti per nulla scontata si intravede il precipizio del ‘fiscal cliff’, quel baratro che il presidente della Federal Reserve Bernanke guarda con malcelata preoccupazione: dal 1 gennaio decadranno i bonus e gli sgravi fiscali varati da George W.Bush e la nuova amministrazione Obama si vedrà costretta a scegliere fra l’aumento delle tasse (un 2 per cento almeno, che per l’America, dal prelievo fiscale fra i più bassi del mondo è quasi una rivoluzione) e il taglio della spesa pubblica. “Una strada stretta che porta facilmente alla recessione”, spiegano gli analisti di Foreign Affairs, ma non occorre una scienza particolare per rendersene conto con una nazione che assomma 36 milioni di poveri e 23 milioni di senza-lavoro con un tasso di disoccupazione che sfiora l’8 per cento.

    The best is yet to come, cantava nel 1964 Frank Sinatra con l’orchestra di Count Basie. Non la pensano così i milioni di americani che hanno votato Mitt Romney perché non volevano che Obama restasse alla Casa Bianca, assegnando a questa tornata elettorale un improvvido significato storico: sarà probabilmente l’ultima volta che il Grand Old Party potrà fare affidamento sul solo voto dei bianchi. Destinati senza misericordia a diventare minoranza etnica e linguistica, i padri fondatori dell’America dovranno fare i conti con una società multietnica dove le isole di appartenenza non sono più conciliabili e soprattutto non pagano. Obama incarna – lo voglia o no – il trionfo di un melting pot imperfetto ma inesorabile, Romney il ritratto di un’America che finirà sempre più per assomigliare ai dipinti di Thomas Hart Benton, Obama è uomo del terzo millennio, Romney uomo del Novecento, e per certi versi del secolo precedente, un trionfo di liberismo, meccanica, ciminiere fumanti, mani invisibili del mercato, malthusianesimo travestito da caritatismo compassionevole. Obama cerca invece di redimere una società ancora pesantemente basata sull’esclusione sociale e sulla ghettizzazione del lavoro, che allinea centinaia di migliaia fra clandestini, latinos e asiatici destinati alle mansioni meno qualificate. Ed è proprio questo terzo mondo di invisibili e di malvisti che è accorso a votare il presidente figlio di un kenyota e di una signora del Kansas. Un voto a volte acido, come mi raccontava Isabel Lamartine, nera, un impiego provvisorio a Washington come addetta alle pulizie: “Si va a votare Obama perché non si può fare altrimenti. Il sogno certamente è finito, la necessità di votarlo ancora no”.

    The best is yet to come. Spiegarlo a Stephen Riley, newyorkese, piccolo imprenditore, che per la prima volta ha tradito il voto democratico e ha votato per Romney non sarà facile. “Obama ha aiutato le banche, le banche hanno fatto di tutto per non aiutare me. Troppo piccolo per ottenere un prestito, troppo grande per fallire. Risultato, ho dovuto licenziare una decina di dipendenti – messicani e asiatici, per lo più – che guadagnavano 3.500 dollari al mese e che stavano comprandosi la casa nel Queens”. Sull’Ottava avenue, in quella che un tempo si chiamava Hell’s Kitchen, si beve gingerpear Martini. Nugoli di avvocati in libera uscita brindano alla facile vittoria di Obama a New York. “Non è mai stata in discussione”, dicono. Ed è vero. Ma già fanno i conti e scrutano il futuro: ci sarà recessione o ripresa? I consumi hanno rialzato la testa, i prezzi degli immobili sono risaliti, ma per l’America 176mila nuovi posti di lavoro in un mese non sono abbastanza. Ce ne vorrebbero 250mila per essere sicuri che la crescita sia crescita vera. Romney prometteva 12 milioni di posti di lavoro. Un programma irrealizzabile. Obama ha fatto solo promesse generiche. Sa che possono arrivare ancora tempi bui.

    The best is yet to come. Per i molti americani appesi al destino di Medicare e Mediaid, certamente sì. Romney minacciava di sforbiciare severamente quel simulacro di welfare che ancora esiste nell’America governata dai democratici. Un sistema costoso, soprattutto per le casse federali, che i tanti detrattori vedono come un’anticamera del socialismo importato dall’Europa. Romney agitava lo spauracchio della Grecia e della Spagna, senza trascurare l’Italia. “È lì che ci porterà Obama”, minacciava. Non è vero, naturalmente, ma non è nemmeno così scontato che il meglio debba ancora venire. Obama però ha vinto la prima volta vendendo un sogno. E anche sta volta ne ha confezionato uno. Esile, impalpabile, ma pur sempre sogno. Gli americani – lo sappiamo – dei sogni non ne possono fare a meno.

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