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    Il gioco del silenzio

    Dopo la stampa, il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan vuole imbavagliare anche i social network

    Di Gianni Rosini
    Pubblicato il 20 Mar. 2014 alle 03:46 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 21:51

    Articoli di giornale, tweet, post su facebook, opinioni personali. Tutto deve essere controllato e le obiezioni ridotte al minimo. Così il primo ministro turco, Recep Tayyip Erdoğan, ha iniziato fin dalla sua entrata in carica, nel 2003, una campagna di eliminazione del dissenso. Ora che la maggior parte dei media sono sotto il controllo diretto o indiretto del governo, lo sguardo di Erdoğan si è spostato sui social network: «Non lascerò questa nazione in balia di Facebook e Youtube», ha dichiarato il 6 marzo durante un’intervista a ATV.

    Il leader dell’Akp ha minacciato di bandire i noti social media, colpevoli di aver diffuso intercettazioni e informazioni che riguardano il Premier e il suo entourage, alimentando la Tangentopoli turca che ha sconvolto il governo e messo a rischio la figura politica dello stesso Erdoğan. La pressione è concentrata sui giornalisti turchi che si azzardano a manifestare dissenso nei confronti del governo, rischiando il licenziamento, a meno che non lavorino per una delle poche testate ancora indipendenti.

    L’ultima a farne le spese, il 6 marzo, è stata Sibel Oral, giornalista e scrittrice che da 12 anni si occupa di arte e letteratura per i più importanti giornali del paese. Oral lavorava per il quotidiano Akşam, recentemente confiscato dal governo al Çukurova Media Group a causa dei debiti accumulati dal gruppo editoriale, e da poco era stata incaricata di dirigere una nuova sezione culturale del giornale, Akşam Trend. «La mia colpa – racconta – è stata quella di scrivere un tweet in cui, citando una famosa canzone turca, esprimevo dissenso per quello che Erdoğan stava dicendo in tv durante un incontro. Dieci giorni dopo sono stata licenziata».

    La pressione politica sui giornalisti, ci confessa, è un aspetto del mestiere con cui in Turchia si deve imparare a convivere. Anche per questo motivo non è sorpresa delle ultime dichiarazioni del Primo Ministro riguardanti la volontà di controllare i social media. «Me lo aspettavo – dice. Facebook e Youtube sono stati i canali attraverso i quali sono nate le proteste di Gezi Park e che lo hanno reso vulnerabile di fronte all’opinione pubblica internazionale. Il Primo Ministro non ha mai sopportato gli oppositori e quindi non ha intenzione di permettere che ci sia una nuova piazza Taksim. Ma io conosco il popolo turco e una decisione del genere porterebbe a nuove proteste».

    Da quando sono scoppiate le manifestazioni di Gezi Park e lo scandalo della Tangentopoli turca, le intimidazioni del governo sono state sempre più dure: «Ricordo almeno 80 giornalisti – racconta Oral – licenziati per il loro sostegno alle proteste di Taksim. Molti altri, come Can Dündar e Hasan Cemal, si sono dimessi a causa delle pressioni ricevute dai rispettivi editori collegati al governo o all’Akp».

    L’ultimo duro colpo alla libertà di stampa si registra a maggio, quando il Fondo di deposito risparmi turco (Tmsf) ha sequestrato ben undici tra giornali e canali radiotelevisivi appartenenti al Çukurova Media Group, uno dei più grandi gruppi editoriali del paese. Oggi, dodici dei primi 15 quotidiani più venduti in Turchia sono in mano a società legate al governo o che hanno tra i loro dirigenti uomini vicini a Erdoğan. È il caso, ad esempio, del Turkuaz media Group, controllato dalla Çalık Holding, il cui amministratore delegato è il genero del Primo Ministro, Berat Albayrak.

    Anche nel settore radiotelevisivo la situazione non cambia. Oltre alle 15 frequenze pubbliche nazionali, 12 canali televisivi dei 26 che si occupano di news e tv sono collegate al governo. Chi non si allinea, come il gruppo Doğan, incorre in pressioni continue e multe. Il prossimo obiettivo sono i social network.

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