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    I siriani senza Stato del Golan

    Colloquio con Hamid, artista narratore dei conflitti mediorientali. Nato e cresciuto in un limbo tra Siria e Israele

    Di Maria Elena Tanca
    Pubblicato il 22 Nov. 2012 alle 18:27 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 23:03

    I siriani senza Stato del Golan

    “Ho potuto vedere quel che succede in Siria attraverso i mass media. E soprattutto guardando i video che circolano su internet. Non sono autorizzato a entrare nel Paese: sono nato e cresciuto sulle alture del Golan, un territorio siriano da 44 anni sotto l’occupazione israeliana”. Hamid (nome di fantasia) racconta la sua storia in una sala della ‘Fabbrica del Vapore’, a Milano. È qui in rappresentanza della ‘Syrian Anonymous Exhibition’, un collettivo di artisti siriani i cui membri preferiscono restare anonimi. Fa parte del progetto ‘Disorder’, che raggruppa opere d’arte provenienti da 15 Paesi del Mediterraneo. Tutte realizzate da giovani sotto i 30 anni.

    Capelli spettinati raccolti in una coda bassa, viso scavato e fisico snello, Hamid parla un inglese fluente. Ogni tanto gesticola o si mette le mani tra i capelli, come per pensare meglio: difficile spiegare la sua condizione di artista ‘apolide’. “Sono nato in questo posto indefinito: non mi sento israeliano, né siriano. Non ho alcuna nazionalità. Come posso definire me stesso?”, chiede. “Me lo son domandato già quand’ero nel Golan. Ma è soprattutto una volta arrivato in Europa che mi son scontrato con questa domanda”.

    Ora Hamid vive a Vienna. Nel Golan ha frequentato buona parte delle scuole. E prima di trasferirsi in Europa ha studiato per un periodo a Damasco: gliel’ha permesso un programma Onu rivolto ai siriani nei territori occupati da Israele. “Purtroppo non sono autorizzato a tornarci. In base a quest’accordo tra Gerusalemme e Damasco, una volta finiti gli studi, è obbligatorio rientrare nel Golan. Tutto ciò che mi resta della Siria sono cinque anni di ricordi”.

    Una condizione che accomuna tanti giovani come lui da quando, nel 1967, sei giorni cambiarono gli equilibri della regione mediorientale. Durante le fasi finali di quella che fu chiamata ‘Guerra dei sei giorni’, Israele strappò il Golan alla Siria. Da allora l’area è sotto l’occupazione israeliana. Nel 1974, un anno dopo la guerra dello Yom Kippur, per garantire il rispetto del fragile accordo di pace fu creata una fascia di sicurezza. Quella sottile striscia di terra fu posta sotto il controllo dei reparti Onu dell’Undof (United Nations Disengagement Observer Force). Oggi sono oltre mille i membri delle forze di pace delle Nazioni Unite presenti al confine tra i due Paesi.

    Nel 1981 Israele annesse il Golan, applicando le sue “leggi, giurisdizione e amministrazione” sul territorio. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu, con la Risoluzione 497, dichiarò nulla l’annessione. Ma Israele continua ad affermare il diritto di restare nell’area in base alla Risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza. In essa è stabilito il diritto di ciascuno Stato “alla propria integrità territoriale, a confini sicuri e riconosciuti, liberi dalla minaccia o dall’uso della forza”. Oggi nel Golan si contano circa 20 mila siriani, in prevalenza Drusi. I musulmani sono più di 2 mila. E i coloni israeliani quasi 20 mila: vivono nei 33 insediamenti agricoli sorti nell’altopiano dal 1967.

    Con lo scoppio della guerra civile siriana, la questione delle alture del Golan, da sempre contese tra i due Paesi, rischia di tornare alla ribalta. Qualche settimana fa la tensione è salita ancora: alcuni colpi di mortaio sono caduti proprio sull’altopiano. I carri armati israeliani hanno risposto colpendo l’artiglieria mobile siriana. Ma di questo Hamid non vuol parlare. “Le questioni politiche non mi riguardano. Cerco di occuparmi solo del lato artistico. Posso solo dire che la situazione nel Golan è ben diversa da quella che c’è in Siria. La gente nella mia terra è al sicuro”.

    Nonostante faccia una netta separazione tra arte e politica, quei confini stabiliti a tavolino gli vanno stretti. “Non credo nella definizione geografica del territorio. Quando è iniziata la ribellione in Siria, ho sentito il bisogno di lavorare su quel che stava accadendo. Ma non in quanto siriano. Sentivo di volerlo fare. E da allora non sono riuscito a smettere”. Le sue opere si concentrano sui bambini, vittime innocenti della guerra. Il punto di partenza sono alcuni filmati crudi e violenti che circolano sulla rete. Troppo forti, a suo avviso, per essere visti per intero. Hamid ferma i video nei momenti salienti e fotografa le immagini che più lo colpiscono. “Poi scrivo sull’occhio ‘occhio’, sul naso ‘naso’, sulla bocca ‘bocca’. Cerco di chiamare le cose con il loro nome per affermare che esistono, sono là”, dice. “Non penso di fare qualcosa di speciale. Con queste opere voglio solo dire: non dimenticheremo mai i bambini della Siria”.

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