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    I giovani studenti dell’Afghanistan

    Molti di loro hanno solo vaghi ricordi del regime dei talebani. Ma sono determinati a far sì che il Paese non sprofondi nuovamente nell'arretratezza

    Di Luigi Spera
    Pubblicato il 16 Gen. 2013 alle 19:35 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 22:04

    I giovani studenti dell’Afghanistan

    L’oppressione talebana è spesso un ricordo lontano per gli studenti dell’Università di Herat, di quando erano ancora bambini. Ora vedono nella cultura una possibile via di scampo all’arretratezza del proprio Paese. A parlar con loro, si avverte voglia di conoscenza, di emancipazione, e determinazione a non perdere quello che in maniera insperata hanno ottenuto di recente. I passi avanti fatti dalla missione Isaf in Afghanistan sono stati notevoli e apprezzati, ma la modernità si scontra con tradizioni di secoli, non certo cancellabili con un colpo di spugna. E la parte più debole restano le donne. “Vorrei fare la giornalista, ma qui è difficile. Ma almeno posso uscire di casa e studiare”. Questa è la prima frase con cui Laris Wazivi, sorridente, attira l’attenzione dei ‘colleghi’ europei, scesi dall’elicottero nell’ateneo di Herat per una conferenza.

    Laris, 22enne studentessa in legge, conduce una vita tutto sommato normale. Padre di Kabul, madre di Herat, è nata lontano dalle aree rurali dove per le donne uscire di casa è ancora un problema anche in burqa. Ha avuto la fortuna di nascere nella seconda città del Paese, in una famiglia ‘moderna’ che le ha dato la possibilità di studiare. Tuttavia assume un tono affranto quando racconta dell’impossibilità di fare ciò che vuole, per i limiti di una società ancora arretrata. “Fino a due mesi fa ho lavorato come giornalista per un’agenzia di stampa. Mi piaceva, ma ho avuto diversi problemi e ho dovuto smettere dopo un anno. E poi – conclude – non potrò mai apparire in video”. Quando le viene chiesto se ha un fidanzato, la reazione di Laris è istintiva: un passo indietro, occhi spalancati e un sorriso imbarazzato. “Noi in Afghanistan non possiamo avere un fidanzato, è pericoloso”. Poi prosegue: “Il matrimonio invece viene deciso dai genitori. Il padre dell’uomo contatta la famiglie della ragazza e si accorda. Spesso noi non sappiamo chi sposiamo fino al giorno delle nozze”.

    I miglioramenti però ci sono. All’ora di inizio delle lezioni a Herat si vedono molte ragazze all’ingresso dell’università. Tutte sono avvolte in uno chador. Per alcune, solo un modo per camminare in strada senza essere insultate. Laris è tra di loro. Una volta seduta e riposto l’ampio velo, resta in hijab, con il volto scoperto. I jeans e le scarpe da ginnastica le danno un aria molto normale, e le permettono di non mostrare troppo il corpo. “Ora lavoro allo Youth Development Program – dice – facciamo tante cose buone, anche se non è lo stesso che fare la giornalista. Ma prima era peggio. Con i talebani avevamo tanti problemi, non si poteva studiare, non avevamo pace”. Una situazione che conosce bene Said Rashid Fardani, primo studente iscritto all’università di Herat dopo la caduta del regime talebano nel 2001. È lui il responsabile e il capo dello Youth Development Program. Giovane colto, attivo nel sociale, e abbastanza adulto, con i suoi 28 anni, per ricordare nitidamente il passaggio epocale dal regime dei mullah alla giovanissima Repubblica afgana. “I am the boss” dice con orgoglio, fiero del suo impegno per i giovanissimi. “Il problema più grande dei ragazzi qui è soprattutto l’analfabetismo. Questo causa infatti disinteresse e poca informazione sulle questioni politiche e sociali del Paese. Una cosa molto grave – afferma in un inglese curato – perché solo con la conoscenza si può capire come vanno le cose, allontanando il rischio che si torni indietro”.

    “Quando c’erano i talebani – continua – non c’era radio, tv e non si potevano fare assemblee. Anche solo incontrarsi per strada poteva essere un problema. C’erano solo madrasse (le scuole islamiche). In quegli anni le donne per legge non potevano uscire di casa e in molti hanno accettato tutto per paura di essere uccisi”. Nessuno, lascia intendere, ne tollererebbe il ritorno. “Io in quel periodo, prima di iscrivermi all’università, impartivo lezioni di religione. Dopo, durante gli studi, ho insegnato inglese e informatica”. Nel 2003 poi arriva il lavoro allo Youth Development Program. L’istituto conta 500 frequentanti, tantissimi dei quali sono ragazze. “Anche solo farle entrare nell’istituto – racconta Said – non è stata un’impresa facile, all’inizio. I più vecchi non erano sorpresi di vederle per strada, per loro era normale, prima dei talebani. Per i più giovani invece, era una cosa strana, una cosa nuova”. Molti lo hanno accettato con difficoltà. “Spesso è capitato che le ragazze venissero inseguite per strada e offese pesantemente, solo perché erano uscite”.

    Il peggio sembra passato, ma nuovi problemi si affacciano all’orizzonte, considerando che nel 2014 ci sarà il ritiro della missione militare Isaf. Le elezioni del 4 aprile rappresenteranno una prova importante per capire quale sarà il futuro dell’Afghanistan. “Non bello né buono – dice Said – solo normale. Ma questo dipende dalla volontà di emanciparsi da parte degli afgani. Se si sforzeranno di capire che se l’Afghanistan è in pace, la società può svilupparsi”.

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