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    Migranti di serie B: così l’Italia apre le porte ai rifugiati ucraini e discrimina tutti gli altri

    Di Marta Vigneri
    Pubblicato il 15 Apr. 2022 alle 08:54 Aggiornato il 15 Apr. 2022 alle 08:55

    Mentre l’Italia apre le porte ai cittadini ucraini che fuggono dalla guerra, ogni settimana centinaia di migranti salpano dalle coste della Libia per navigare le acque del Mediterraneo centrale cercando di raggiungere l’Europa, attraverso una delle rotte più pericolose al mondo, dove oltre 400 persone hanno già perso la vita dall’inizio del 2022. Vengono dall’Africa sub-sahariana o dal corno d’Africa, ma tutti hanno fatto tappa in Libia, in uno dei centri di detenzione per migranti, dove la violazione dei diritti umani e le torture sono all’ordine del giorno, documentate negli anni da Ong e Organizzazioni Internazionali.

    Per loro non ci sono le staffette di solidarietà organizzate dagli italiani per il popolo ucraino, né un racconto televisivo degli eventi che li hanno spinti ad affrontare un viaggio mortale pur di approdare nel nostro Paese. Nel migliore dei casi arrivano autonomamente in uno dei porti siciliani, a bordo d’imbarcazioni spontanee. Nel peggiore si fermano prima. Annegano fra le onde mentre l’Europa sta a guardare.

    “Sono bambini e adolescenti come sono bambini e adolescenti gli ucraini in fuga. Le loro famiglie sono devastate dall’esperienza migratoria, di cui la Libia è solo l’ultima tappa. Il viaggio è iniziato nei Paesi d’origine anni prima”, racconta Fulvia Conte, coordinatrice dei soccorsi del team della Ong Medici Senza Frontiere (Msf), che dall’inizio dell’anno ha gestito le operazioni di ricerca della nave Geo Barents nelle acque internazionali al largo della Libia, portando in salvo oltre 600 migranti.

    Due pesi, due misure

    Le ultime 113 persone hanno atteso una settimana prima che il Viminale autorizzasse lo sbarco nel porto di Augusta. “Un periodo che ricorda il range dell’era Salvini”, afferma Conte. Un’attesa “innecessaria e senza senso” secondo il capo Missione di Msf, Juan Matias Gil. “La situazione a bordo era molto tesa perché le persone non capivano cosa stesse succedendo, e neanche noi. Parliamo tanto di come accogliere bene gli ucraini, ma non questi migranti: ci sono evidentemente due standard”, osserva Gil.

    Il doppio standard applicato a cittadini ucraini e extraeuropei è evidente lungo tutto il percorso che attende chi arriva in Italia, dall’identificazione fino all’accesso alle reti di accoglienza diffusa sul territorio, in cui rispetto a chi è stato scacciato da un nemico ben definito come Vladimir Putin, gli altri appaiono migranti di serie di B. Respinti, discriminati, intrappolati in iter burocratici che impiegano anni a compiersi e a permettere di acquisire gli strumenti necessari a integrarsi senza cadere nell’illegalità o nello sfruttamento.

    Se il 3 marzo 2022 il Consiglio dell’Ue ha autorizzato un permesso di soggiorno temporaneo per tutti gli sfollati ucraini, un unicum nella storia dell’accoglienza secondo gli operatori del settore, per gli altri richiedenti asilo la sola possibilità di presentare domanda rappresenta un ostacolo all’accoglienza. Lo dimostra l’esperienza delle navi quarantena, istituite ad aprile del 2020 dal Dipartimento della Protezione Civile sull’onda dell’emergenza sanitaria, dove i migranti che approdano in Sicilia sono obbligati a trascorrere un periodo di 14 giorni di isolamento fiduciario, ridotto a cinque il 31 marzo 2022.

    Discriminazione negli hotspot

    A detta delle associazioni che in questi anni hanno monitorato la gestione dell’accoglienza a bordo e hanno denunciato la natura discriminatoria di una prassi riservata ai soli passeggeri delle navi Ong, i dispositivi si sono trasformati in hotspot galleggianti, dove accedere ai servizi legali e medici è quasi impossibile e viene fatta “una selezione all’ingresso”.

    “Il problema più grande è quello di non riuscire a presentare richiesta di protezione internazionale. Se sei maghrebino danno per scontato che devi essere rimpatriato perché rientri nella lista dei 13 Paesi sicuri del Viminale”, racconta Sami Aidoudi, operatore di Inlimine, progetto dell’Associazione Studi Giuridici sull’immigrazione che monitora la gestione delle frontiere. Eppure presentare domanda d’asilo “è un diritto soggettivo che non può essere negato a nessuno”, spiega Paola Ottaviani, avvocato di Bordeline Sicilia, che insieme ad altre 150 associazioni ha lanciato un appello al Ministero dei Trasporti, al Ministero della Salute e a quello dell’Interno per chiudere le navi quarantena.

    Che però, a emergenza finita, sono ancora in piedi. Ma anche dove non vige l’obbligo di quarantena su una nave le discriminazioni riservate ai migranti extraeuropei sono evidenti. Come in Friuli Venezia Giulia, punto di approdo di chi fugge da un’altra emergenza, quella esplosa in Afghanistan ad agosto 2021 dopo il ritorno al potere dei talebani. Alla luce del trattamento riservato ai cittadini afghani rispetto a chi arriva da Kiev, anche questa emergenza è stata considerata di serie B.

    A spiegarlo è Gianfranco Schiavone, presidente dell’Ics, che a Trieste gestisce la rete di accoglienza diffusa insieme alla Caritas, “un sistema consolidato sviluppato in anni di lavoro” su un territorio restio all’accoglienza, dove il razzismo è emerso chiaramente nelle ultime settimane.

    “La discriminazione verso gli afghani o i pachistani non è neanche nascosta, è rivendicata, quasi spontanea”, afferma. “Alcune persone che hanno dato disponibilità ad ospitare gli ucraini vogliono specificare nel contratto l’etnia di provenienza”. Il primo aprile scorso i 100 ospiti di Casa Malala, centro di accoglienza che si trova sulla frontiera tra Italia e Slovenia, sono stati spostati per fare posto agli sfollati ucraini. “Con un flusso di 500 persone al giorno disporre di un centro di prima accoglienza in una posizione simile è una giustificazione in parte accettabile. Il problema è che non c’è stata grande considerazione del destino e del collocamento degli altri. La prefettura non si è domandata se avevano un percorso di radicamento a Trieste, se andavano a scuola o avevano un appuntamento per una commissione il giorno dopo”, afferma Schiavone.

    “L’unica cosa che siamo riusciti a fare è stata individuare 25 persone con evidente radicamento territoriale e spostarle in accoglienza diffusa, per evitare che fossero sbattuti altrove”. L’emergenza ucraina ha messo in evidenza le contraddizioni di un luogo in cui fino a questo momento le istituzioni e gli attori del settore “facevano a gara ad arrivare ultimi”, mentre con gli ucraini “bisogna dare prestazione di efficienza a scapito di altri, come se non contassero niente”. Una situazione che risulta ancora più grave se si considera un aspetto: a differenza degli ucraini, i migranti della rotta balcanica non hanno davanti a sé alcuna prospettiva di rientro nel proprio Paese. “È a loro che dovrebbe essere data maggiore attenzione nel percorso d’integrazione – aggiunge Schiavone – perché un afghano non tornerà più a casa”. Continua a leggere l’articolo sul settimanale The Post Internazionale-TPI: clicca qui

     

     

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