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    La guerra degli algoritmi: così la tecnologia aiuta Israele a continuare la guerra a Gaza e in Cisgiordania

    Credit: AP Photo

    Software spia per schedare i palestinesi, programmi per aumentare la capacità di fuoco dell’artiglieria e dell'aviazione e un accordo con le Big Tech per gestire i dati. Ecco come il governo israeliano combatte la cyberguerra contro i palestinesi

    Di Almerico Bartoli
    Pubblicato il 25 Mar. 2024 alle 10:50 Aggiornato il 24 Apr. 2024 alle 15:38

    Algoritmi per il riconoscimento facciale, sistemi di monitoraggio automatizzati, mitragliatrici smart e droni parlanti. I Territori occupati da Israele in Palestina si sono trasformati in un vero e proprio laboratorio per testare le tecnologie militari più avanzate e consentire al governo di ultra destra di Tel Aviv di consolidare le proprie politiche di segregazione razziale attraverso la limitazione della libertà di movimento e la violazione dei diritti di base dei palestinesi, la popolazione più sorvegliata del mondo.

    Controllo totale
    A suscitare particolare scalpore nel 2021 fu un progetto pilota che prevedeva l’installazione nel Checkpoint 56 di Shuhada Street, nella città vecchia di Hebron, di telecamere dotate di intelligenza artificiale “Blue Wolf” (2021), un sistema di sorveglianza in grado di riconoscere gli individui in base a un codice-colore per stabilire il loro grado di pericolosità. Lo stesso checkpoint illegale è attrezzato con delle torrette automatizzate capaci di sparare lacrimogeni, granate assordanti e proiettili di gomma senza sprecare un colpo grazie alla tecnologia Smash Shooter, un programma intelligente sviluppato da Israele capace di aggiustare automaticamente il tiro delle armi verso il bersaglio senza sprecare un colpo; “one shot, one hit” come cita il sito dell’azienda produttrice. Le successive evoluzioni dei suddetti sistemi, come prevedibile, si sono rivelate sempre più distopiche e controverse, come le versioni implementate nel 2023 dell’IA “Wolf Pack” per il riconoscimento biometrico tra cui “Red Wolf”, i cui database contengono informazioni su ogni palestinese senza il loro consenso – incluse fotografie, storia familiare, grado d’istruzione e livello di pericolosità – fornendo un quadro unico sulle disparità sistemiche di chi vive sotto la sorveglianza algoritmica di Stato, e la meno conosciuta “White Wolf”, collegata ai database dell’esercito e del governo, utilizzata nella West Bank per scansionare carte d’identità e permessi di viaggio dei lavoratori palestinesi. Il sistema Smash Dragon, rivelato ad agosto l’anno scorso, è invece in grado di collegare le mitragliatrici a dei droni per colpire obiettivi statici o in movimento con la massima precisione dai quadricotteri in volo.

    Durante alcune manifestazioni è stato segnalato anche l’uso di droni parlanti per intimare ai dimostranti di «andare a casa» e di non «stare dalla parte del nemico» in ebraico. L‘Idf ha dichiarato che il loro uso è limitato alle comunicazioni, ma molti attivisti temono che vengano utilizzati anche per schedare, tramite i software di riconoscimento facciale, i partecipanti. D’altronde i palestinesi sono ormai abituati al ronzio dei droni sopra la loro testa, specialmente in luoghi come Hebron e Gerusalemme Est dove gli spostamenti di ciascun individuo sono sempre monitorati. Di recente anche le pratiche invasive dei contenuti palestinesi online hanno sconcertato l’opinione pubblica e sollevato proteste. Secondo le organizzazioni per i diritti umani, la famigerata Cyber Unit israeliana avrebbe lavorato a stretto contatto con Instagram, X (Twitter), e Facebook per richiedere la rimozione di contenuti creati da o per i palestinesi dalle loro piattaforme. Secondo l’ufficio del Procuratore generale, solo nel 2019 sono state inviate 19.606 richieste alle società di social media per eliminare contenuti «problematici». 

    Un altro esempio lampante di cosa voglia dire vivere sotto un sistema di sorveglianza capillare è lo spyware Pegasus dell’azienda israeliana NSO, già noto alle cronache nel 2021 per aver hackerato 50mila numeri di telefono di attivisti, giornalisti e leader mondiali. Si tratta di un sistema usato dai militari israeliani non solo per violare la privacy dei palestinesi tramite l’archiviazione e la scansione dei loro dati, ma viene utilizzato anche per ottenere informazioni dai messaggi crittografati e inserire informazioni false nei telefoni senza lasciare traccia.

    Occupazione Automatizzata
    Non a caso Amnesty International parla di “Apartheid automatizzato” nel titolo di un suo rapporto uscito a maggio dell’anno scorso, per descrivere come Israele controlla, oltre alle comunicazioni, tutti gli spostamenti di beni e persone grazie a sistemi di sorveglianza di massa implementati in maniera estensiva in Cisgiordania e a Gerusalemme Est con l’obiettivo di creare un ambiente ostile e coercitivo volto a minimizzare la presenza di palestinesi nelle aree di maggiore importanza strategica.

    Già nel 2021, durante gli undici giorni di assedio alla Striscia di Gaza, i generali israeliani declamavano come l’intelligenza artificiale avesse «moltiplicato la capacità di fuoco» e negli ultimi tre mesi sistemi come il «Gospel» hanno aiutato Israele a raddoppiare il numero di obiettivi da bombardare. Per fare un confronto: nella guerra di Gaza del 2014, durata 50 giorni, l’esercito israeliano aveva colpito complessivamente 6 mila target, mentre ad appena un mese dall’inizio dell’attuale conflitto, l’IDF affermava di aver identificato «oltre di 12 mila» obiettivi. Una quantità inimmaginabile prima dell’avvento di questa tecnologia.

    Una partnership miliardaria
    Mentre queste tecnologie di sorveglianza– droni, riconoscimento facciale, database ecc – vengono sviluppate internamente dalle forze armate israeliane, i mezzi per farlo provengono spesso dall’estero, soprattutto da aziende occidentali. Un recente e preoccupante contratto tra le Big Tech e Israele è il Progetto Nimbus di Amazon e Google – un accordo da 1,2 miliardi di dollari, il più grande mai stipulato nel settore dallo Stato ebraico, che fornisce un servizio cloud onnicomprensivo all’esercito israeliano e può essere utilizzato per la categorizzazione automatica delle immagini, il monitoraggio degli oggetti e l’analisi del sentiment – quest’ultimo un tema sempre più controverso nell’apprendimento automatico e riguarda la valutazione del contenuto emotivo di immagini, testi e parole ritenuto pseudoscientifico e invasivo. Gli attacchi militari dipendono da server e comunicazioni digitali e la sorveglianza si basa interamente su questa tecnologia. Database che memorizzano informazioni sui registri anagrafici e fondiari palestinesi, database della popolazione: tutti richiedono dei server cloud, in questo caso forniti a Israele da Google e Amazon. Il progetto, già in corso, nel 2021 ha suscitato le proteste dei dipendenti e delle organizzazioni per i diritti umani da cui è nato il movimento #NoTechForApartheid, ma i loro sforzi non hanno portato a cambiamenti sostanziali. 

    Lo sviluppo della sorveglianza intelligente nei regimi oppressivi è un tema sempre più controverso. Più sofisticati sono i meccanismi di sorveglianza, maggiore è la probabilità del loro impatto in termini di violenza e repressione. In un mondo sempre più automatizzato, i diritti digitali sono sempre più al centro delle conversazioni delle organizzazioni per i diritti umani. La tecnologia IA, che non è mai neutrale, verrà alimentata e istruita anche dalle decisioni sbagliate prese in passato, rafforzando in tal modo i suoi pregiudizi verso le comunità oppresse e segregate.

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