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    Gli ultras del Cairo

    Dalle proteste di Piazza Tahrir agli incidenti di Port Said. I tifosi dell'Al-Alhy spiegano il loro ruolo influente nella società egiziana

    Di Giovanna Loccatelli
    Pubblicato il 7 Feb. 2013 alle 17:37 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 23:01

    Gli ultras del Cairo

    Gli ultras della squadra di calcio Al-Ahly del Cairo sono una lobby in Egitto, capace di influenzare le scelte politiche del governo Morsi. Sono molto numerosi e utilizzano la violenza per raggiungere i loro scopi: “Lo facciamo per non essere vittime del sistema. La nostra è una reazione a un’azione. Se c’è da combattere, non ci tiriamo indietro, anzi. Ma non è lo scopo principale. Il nostro obiettivo è che venga fatta giustizia per i nostri compagni morti a Port Said”, spiega Wael. È un ultras quarantenne, un uomo robusto e alto, che quando non è impegnato nelle sue attività da ‘tifoso’, insegna kickboxing in un piccolo centro sportivo nella zona di Zamalek. Indossa una tuta con il simbolo della squadra: l’aquila. Ci dà appuntamento in un bar del quartiere, frequentato da molti ultras della squadra.

    Gli ultras dell’Al-Ahly – spiega Wael – si incontrano e pianificano le attività con estrema rapidità. Sono assolutamente devoti alla loro causa e fedeli unicamente al loro credo. Politicamente sono pro-rivoluzione, contro il vecchio regime e lo Scaf, il consiglio Supremo delle Forze Armate. Uno dei loro punti forti è proprio l’organizzazione: “Ogni quartiere al Cairo ha una sessione e ci sono dei capi. I dirigenti di ciascuna sessione gestiscono account Facebook – che non sono pubblici – e informano gli altri membri sul territorio riguardo tutte le iniziative: sia quelle sportive che le partecipazioni alle manifestazioni. La gerarchia è piramidale: le sessioni stanno alla base, mentre le decisioni vengono prese – dopo una veloce consultazione corale – da una ventina di capi. Infine ci sono tre portavoce.

    Ci autofinanziamo: quando c’è bisogno di soldi, facciamo cassa comune tra i soci. I cittadini che entrano nel gruppo sono scelti dalla base: non devono avere nessuna caratteristica specifica, la cosa importante è che ubbidiscano sempre agli ordini. E che supportino sempre le decisioni della squadra”. Poi si ferma e aggiunge: “Ad Alessandria gli ultras di Al-Ahly si chiamano Devils”. Sorride, sorseggiando il tè bollente, “Diavoli, il soprannome li descrive bene!”. Wael non vuole parlare dei capi. È molto attento a pesare le parole: “Vi posso mettere in contatto con loro; vengono spesso qui, non sarà difficile per voi incontrarli.”

    Secondo uno dei membri del club di Al-Ahly di Zamalek, dove c’è la sede del club, “gli ultras sono molto forti e spesso trattano con i Fratelli Musulmani, i salafiti e lo Scaf”. Ma riguardo i loro rapporti diretti con la politica Wael non vuole entrare nel dettaglio. “Questo spetta ai capi, non alla base.” La discussione si fa più animata quando si tocca la recente sentenza di Port Said: 21 persone sono state condannate a morte per la strage di un anno fa nello stadio della città. “Quella sentenza ha tre livelli: il primo è punire i responsabili concreti della violenza, gli ultras di Port Said. Ed è stato fatto. La seconda è punire – se necessario, e noi pensiamo che lo sia – la polizia che, per qualche ragione (inefficienza o complicità), non è intervenuta. Questo avverrà l’8 marzo. Il terzo livello è punire chi c’è dietro la polizia: secondo noi lo Scaf. Ma non penso che questo succederà mai. Per il momento comunque siamo soddisfatti”.

    Wael ha le idee molto chiare su chi sono i loro ‘nemici’ ed è consapevole della forte pressione che esercitano sulle decisioni che prende il governo: “Noi supportiamo tutti quelli che si oppongono al vecchio regime. E sì, influenziamo la politica, il nostro slogan prima della sentenza era ‘Giustizia o morte’. Abbiamo scritto questa frase anche sul muro del palazzo presidenziale a Heliopolis. Non possono ignorarci. Sanno che non scherziamo e possiamo diventare all’occorrenza molto violenti. Dopo la sentenza della Corte, abbiamo festeggiato in tutte le strade del centro e a Zamalek.”

    La situazione in Egitto è molto caotica. Ultimamente i cosiddetti ‘black bloc egiziani’ sono stati sotto la luce dei riflettori ma Wael è molto scettico a riguardo: “Non abbiamo nulla a che fare con loro. Sono solo delle persone che indossano una maschera, senza una base solida o un’organizzazione alle spalle. Usano la violenza sistematicamente come metodo. Ora hanno l’attenzione dei media ma – ripeto – sono solo un piccolo gruppo. Per quanto mi riguarda, penso che gli islamisti, specialmente il gruppo estremista Gamaat Islamiya, vogliano aumentare il peso dei black bloc, solo in questo modo possono giustificare l’uso della violenza contro di loro.” Alla fine del nostro colloquio, ammonisce: “Ora aspettiamo la sentenza dell’8 marzo. Il governo sa che dovrà fare i conti anche con noi”.

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