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    I bambini “rubati” della Germania Est: la pratica segreta delle adozioni forzate

    I bambini della Germania Est giocano nei pressi del muro di Berlino.

    Con la separazione di Germania Est e Germania Ovest, a cavallo tra gli anni '60 e '70, diversi bambini vennero separati dai loro genitori e affidati alle famiglie vicine allo Stato socialista della DDR. Ecco i racconti e le battaglie delle vittime della cosiddetta Zwangsadoptionen

    Di Giulia Dallagiovanna
    Pubblicato il 17 Apr. 2018 alle 18:28 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 20:41

    C’è Ute L. alla quale hanno comunicato che le sue due gemelline erano morte pochi giorni dopo la nascita, ma non ha mai potuto vedere i corpi. Andreas Laake, che a 29 anni si è visto portare via il figlio appena venuto al mondo.

    E poi c’è Claudia Thiele che ha aperto un sito internet per cercare la famiglia di origine, di cui ha perso le tracce da quando aveva 12 anni. Sono i genitori e i figli vittime delle “Zwangsadoptionen”, le adozioni forzate nella Germania Est.

    Alcuni di loro si sono riuniti in varie associazioni e dal 2011 organizzano manifestazioni per chiedere di fare chiarezza su questa pagina della DDR, laRepubblica Democratica Tedesca, che non viene inserita nei libri di storia.

    Il 5 aprile Marian Wendt, parlamentare della Cdu di Angela Merkel, si è fatto portavoce di una petizione dove la Interessengemeinschaft gestohlene Kinder der DDR (Comunità in favore dei bambini rubati della DDR) chiede giustizia per le vittime di questa pratica.

    Di cosa si parla

    Gli attivisti le chiamano “deportazioni” e “sequestri” di bambini. Una pratica non scritta, ma largamente utilizzata dal partito socialista alla guida della Germania Est, specialmente dopo la costruzione del Muro di Berlino nel 1961.

    Se una famiglia veniva etichettata come “asociale” o “politicamente instabile”, i figli le venivano strappati e dati in adozione a coppie fedeli al partito o messi negli orfanotrofi. Accadeva sistematicamente, se i genitori erano sospettati di voler tentare la fuga a Ovest.

    Dopo aver partorito, i medici e gli infermieri separavano madre e neonato. Pochi giorni dopo le comunicavano che il piccolo non era sopravvissuto. “Mi ricordo che ero confusa, intontita dai farmaci”, ha raccontato Ute allo Spiegel.

    “È arrivata una signora e mi ha fatto firmare alcune carte, non ho idea di cosa ci fosse scritto. Poi mi hanno detto che le mie due gemelline, Claudia e Katja, erano morte”.

    I corpi non li ha mai potuti vedere. Non tutti i bambini venivano portati via alla nascita. Katrin Behr di anni ne aveva già quattro quando la separarono dalla madre.

    Un trauma che il suo cervello scelse di cancellare, fino a quando non rimase incinta a sua volta. Il medico notò che le mancava un’articolazione del dito: una malformazione dovuta a una malattia che sua madre prese durante la gravidanza.

    Il Muro ormai era caduto da tempo, ma Katrin tornò indietro di colpo alla DDR.

    A quella notte, quando la nonna le disse: “La tua famiglia non c’è più, cercatene una nuova”.

    Al Corriere della Sera ha spiegato di aver ritrovato la madre e di avere avuto accesso agli archivi con tutta la documentazione sul suo caso. La donna era stata etichettata come ribelle e non poteva crescere una figlia.

    Gli orfanotrofi

    Educazione senza affetto, disciplina rigida e punizioni corporali. Heidemarie Plus ha raccontato alla televisione tedesca Zdf di essere anche stata rinchiusa in una sorta di cella di isolamento, per punizione.

    È cresciuta nell’orfanotrofio di Thurgau, dove ricorda il freddo, la fame e gli abusi subiti. “Le educatrici non mostravano nessuna empatia, le punizioni e le umiliazioni, anche per dubbi motivi, erano all’ordine del giorno”, scrive Ursula Burkowski nel suo libro Weinen in der Dunkelheit (“Pianti nell’oscurità”).

    Assieme alla sorella è stata portata nella colonia sovietica per bambini di Berlino Königsheide, conosciuto anche come “Makarenko”, dal nome del pedagogista sovietico che ideò il metodo educativo.

    Era una struttura completamente nuova, con una mensa grande, un ospedale pediatrico e addirittura uno zoo. E poi un viale per le parate, per far crescere i bambini come dei perfetti cittadini socialisti.

    Delle madri di queste due “orfane di stato” si sa poco, probabilmente quella di Ursula aveva tentato di scappare a Ovest e forse alla fine c’era anche riuscita.

    La strega viola

    Dietro a tutto questo c’era Margot Feist, moglie di Erich Honecker, che dal 1971 al 1989 fu segretario del partito socialista della Germania Est. Fu lui a organizzare la costruzione del Muro. La moglie, conosciuta per i suoi capelli viola e il suo carattere di ferro, divenne ministro dell’Istruzione e trasformò il sistema educativo della DDR.

    Lo scopo era quello di crescere futuri cittadini pronti a imbracciare il fucile per difendere i valori del comunismo e del proletariato. Le adozioni forzate erano parte del programma, una mossa strategica attuata in maniera capillare, soprattutto fra gli anni ‘70 e ‘80.

    Migliaia di bambini, forse di più

    Di quanti casi si stia parlando non lo si può sapere con precisione. “Se oggi si va agli uffici che si occupano di adozioni e si chiede di consultare i documenti, ci si sentirà dire che non è possibile, perché bisogna proteggere la privacy dei bambini”, ha spiegato Franz Schumann, un rappresentante della Interessengemeinschaft gestohlene Kinder der DDR, al settimanale Die Zeit.

    Molte carte poi sono state distrutte dalla Stasi (la polizia della Germania Est) oppure falsificate.

    Claudia Thiele sul suo sito scrive: “Sono nata il 27 giugno 1973 ad Halle, ma la data è probabilmente falsa”. Si parla comunque di un dato che entra nell’ordine delle migliaia, anche se uno studio del Centro per le ricerche storiche di Potsdam riporta che i numeri sono probabilmente “sottostimati di molto” e che servirebbe un’indagine più scientifica. Che al momento, però, non è possibile.

    La petizione

    Giovedì 5 aprile, 80 persone dell’associazione Interessengemeinschaft gestohlene Kinder der DDR sono partite in macchina da Dresda e in serata hanno raggiunto Berlino per portare la loro petizione in Parlamento.

    Al Bundestag l’ha presentata poi Marian Wendt, membro dell’Unione cristiano-democratica tedesca di Angela Merkel.

    Quello che si chiede è prima di tutto la chiarezza: accesso alle carte sia degli uffici che si occupano di adozioni, sia degli ospedali. Quanto meno a quelle che non sono state distrutte. E poi giustizia: alcuni fra i responsabili dei sequestri di bambini hanno mantenuto il proprio posto di lavoro anche dopo la riunificazione della Germania.

    Intanto le vittime delle Zwangadoptionen hanno fondato siti, come www.ehemalige-koenigsheider.com che cerca di rimettere in contatto fra loro i bambini dell’orfanotrofio di Königsheider e di ritrovare i genitori.

    Oppure hanno fondato diverse associazioni come Hilfe für die Opfer von DDR-Zwangsadoptionen (Aiuto per le vittime delle adozioni forzate della DDR) e, appunto, la Interessengemeinschaft gestohlene Kinder der DDR che conta circa 1.500 membri.

    Una ricerca che difficilmente potrà avere successo. Molti figli non sanno nemmeno di essere stati adottati, mentre i genitori non hanno nessuna idea di dove possano averli portati. “Loro non sono fra i vincitori della riunificazione”, ha aggiunto Schumann, “la società se li è dimenticati”.

    A cura di Giulia Dallagiovanna

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