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    Gaza, tutti i nodi della Pax Trumpiana

    Credit: AGF

    Il piano del presidente Usa ha ricevuto sostegno da quasi tutti i Paesi del mondo (incluse Cina e Russia). Ma i palestinesi della Striscia temono di tornare ai tempi del colonialismo. Col tycoon, Netanyahu e Blair a decidere il loro destino

    Di Enrico Mingori
    Pubblicato il 10 Ott. 2025 alle 15:18

    A giudicare dalle testimonianze dirette raccolte dai pochi media che hanno accesso con i loro microfoni alla Striscia di Gaza, i palestinesi hanno reagito con sentimenti contrastanti al piano di «pace eterna per il Medio Oriente» concordato dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump e dal primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu. Da una parte c’è la speranza che lo stato di assedio a cui la Striscia è costretta da due anni cessi il prima possibile, dall’altra lo sdegno per la prospettiva che si affaccia: essere sottomessi a un governo di tecnocrati per lo più stranieri.

    Talvolta i due sentimenti coesistono nella stessa persona. «Siamo esausti. Vogliamo solo trovare riposo, un po’ di sollievo dal rumore delle esplosioni e dei continui bombardamenti. Il popolo nutre ancora qualche speranza che questo piano abbia successo, ma sugli scopi ho dei dubbi», dice Kari Thabit, un cittadino di Gaza City sfollato a Dayr al-Balah, intervistato dal giornale emiratino The National. Ahmad Mislih, suo concittadino, anch’egli profugo, è sulla stessa lunghezza di vedute, anche se più tranchant: «Vogliamo che questa guerra finisca, che finisca il massacro, che finisca l’esodo. Che ci siano stabilità, sicurezza, pace. Ma il piano, così com’è, non rispetta le speranze del popolo. Fa solo gli interessi del nemico», lamenta l’uomo davanti alle telecamere dell’Associated Press.

    Nella notte tra mercoledì 8 e giovedì 9 ottobre, Israele e Hamas – le cui delegazioni erano riunite per i negoziati in Egitto, a Sharm el-Sheikh – hanno dato il via libera all’accordo di pace. Dopo il Sì di Netanyahu, molti non si aspettavano che anche l’organizzazione politico-militare terroristica palestinese avrebbe approvato il piano di Trump, soprattutto se si considerano alcune delle condizioni che le sono state poste, tra cui il disarmo e la rinuncia al governo della Striscia. Ma Hamas – i cui vertici sono stati cecchinati uno dopo l’altro da Israele – si trova oggi in una posizione di debolezza negoziale. E rispetto a due anni fa è indebolito pure il regime a cui il gruppo fa capo, l’Iran, colpita lo scorso giugno da un doppio attacco al suo programma nucleare da parte dello Stato ebraico e degli Stati Uniti. Inoltre, la base di intesa per Gaza elaborata da Trump e “bollinata” da Netanyahu concede ai miliziani sopravvissuti due vie di fuga: l’amnistia o l’esilio in un Paese amico. 

    “Può funzionare”
    Secondo Julie M. Norman, professoressa di Relazioni internazionali alla University College di Londra e senior associate fellow al Royal United Services Institute, quella presentata lo scorso 29 settembre alla Casa Bianca è «la migliore offerta che Hamas possa aspettarsi», poiché «il piano include alcune cose che Hamas vuole», come la rinuncia di Israele ad annettere la Striscia, la garanzia di ingresso degli aiuti umanitari e la possibilità per i cittadini gazawi di rimanere a vivere lì.

    Il piano di Trump ha raccolto sostegno quasi unanime a livello internazionale. Otto Paesi arabi e musulmani (Qatar, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Pakistan, Turchia, Arabia Saudita ed Egitto) lo hanno elogiato pubblicamente, sebbene nei giorni seguenti siano emerse da quel fronte alcune critiche. Tutti i leader occidentali – dall’Europa al Canada all’Australia – l’hanno accolto con favore, ma anche Cina, Russia e India – capofila del cosiddetto Sud Globale – hanno fatto sapere di appoggiarlo. Persino l’Autorità nazionale palestinese – che nel documento di Washington è esplicitamente delegittimata, almeno nel futuro prossimo – ha parlato di «sforzi sinceri e determinati» del presidente statunitense e ha espresso la propria «fiducia nella sua capacità di trovare una via verso la pace».

    Su The Economist, l’ex ministro degli Esteri del Kosovo Petrit Selimi ha paragonato la situazione delineata dal piano americano per Gaza all’esperienza vissuta dal suo Paese, dove alla fine degli anni Novanta, per porre fine alla pulizia etnica perpetrata dalla Serbia di Slobodan Milosevic, fu istituita un’amministrazione provvisoria sotto mandato temporaneo delle Nazioni Unite e della Nato (ma in quel caso ci si arrivò dopo che l’Alleanza Atlantica bombardò massicciamente Belgrado). «Dal caos, il Kosovo iniziò a costruire istituzioni democratiche che consentirono alla sua popolazione di controllare il proprio destino», ha ricordato Selimi, convinto che il piano di Trump possa «funzionare».

    Contestazioni
    Nonostante l’ampio sostegno ricevuto, tuttavia, la bozza dell’accordo di pace per la Striscia ha sollevato anche forti contestazioni tra gli analisti. A cominciare dal fatto che la parte palestinese è stata coinvolta nelle interlocuzioni solo a cose fatte, quando cioè il testo in 20 punti era già stato annunciato al mondo, per giunta minacciando di scatenare «l’inferno» qualora Hamas non lo accettasse. «Sembra che l’approccio tipico americano adottato da decenni per raggiungere la pace in Medio Oriente consista nell’elaborare un piano con Israele e poi presentarlo ai palestinesi come un fatto compiuto», osserva Dylan Williams, vicepresidente per gli affari governativi del think tank statunitense Center for International Policy, parlando con il giornale online britannico Middle East Eye.

    L’idea di affidare il governo di Gaza a un comitato tecnocratico supervisionato da un altro comitato presieduto da Trump e composto da leader stranieri, tra cui l’ex premier britannico Tony Blair, solleva, inoltre, accuse di colonialismo. «La parte che ha compiuto il genocidio e gli Stati Uniti, che lo hanno finanziato, sono quelli che decidono il futuro delle persone contro cui stanno commettendo un genocidio», sintetizza su Al Jazeera l’avvocata e analista palestinese Diana Buttu. 

    La presenza nel comitato di Blair – che in Medio Oriente gode di pessima fama, dopo il disastro della guerra in Iraq – rende l’inquietudine dei gazawi ancora più insopportabile. «Siamo già stati sotto il colonialismo britannico», taglia corto Mustafa Barghouti, segretario generale del partito socialdemocratico Palestinian National Initiative, intervistato dal Washington Post. Intanto, dal Regno Unito, Sam Kelly, caporedattore del quotidiano The Independent, scrive: «La realtà coloniale è che Israele e Stati Uniti hanno elaborato un piano astuto per esternalizzare il continuo dominio o l’occupazione israeliana della Striscia sotto un governatore, Tony Blair (un uomo molto vituperato in Medio Oriente), e un re, Donald Trump, che governerebbe Gaza».

    Anche la previsione di una Forza di Stabilizzazione Internazionale (Isf) da dispiegare temporaneamente nella Striscia, con le truppe israeliane che rimarrebbero a presidiare un «perimetro di sicurezza», rilancia i timori per una occupazione straniera camuffata da processo di pace.

    Poi c’è la questione della Cisgiordania. Nel piano di Trump non solo non è stato inserito alcun divieto per Israele di annetterla, ma la West Bank non è nemmeno menzionata, una mancanza tutt’altro che casuale e tutt’altro che secondaria per un accordo che ambisce – nelle parole del presidente Usa – a portare la pace in Medio Oriente per la prima volta dopo tremila anni. Il documento si occupa esclusivamente della Striscia di Gaza, per la quale evidentemente si prospetta un destino slegato a quello della Cisgiordania: il ché evidentemente pone più di qualche interrogativo rispetto a quel «percorso credibile verso l’autodeterminazione e lo Stato palestinese», di cui si parla nella stessa bozza di accordo.

    «Il piano rafforza la frammentazione della Palestina e tratta Gaza come una crisi isolata piuttosto che come parte di una più ampia realtà di occupazione illegale e regime di apartheid», si legge in una nota del Centro Internazionale di Giustizia per i Palestinesi. «Ciò mina il concetto di uno Stato palestinese unificato e rafforza ulteriormente la consolidata strategia israeliana del “dividi et impera”, volta a indebolire l’unità nazionale, la governance e l’azione politica collettiva dei palestinesi».

    Incognite
    Se il grande convitato di pietra a Sharm el-Sheikh è l’Iran, totalmente assente è invece l’Autorità Nazionale Palestinese, un’entità ormai priva di peso politico sia all’interno (in Cisgiordania) sia all’esterno (nei rapporti internazionali). Il piano di Trump afferma che l’Anp «potrà riprendere il controllo di Gaza» solo quando avrà «completato il suo programma di riforme», ma non è del tutto chiaro a quali riforme ci si riferisca nello specifico: il riferimento è probabilmente a interventi contro la corruzione e sul programma di assistenza economica in favore delle famiglie dei palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, ma mancano dettagli precisi a riguardo.

    Altrettanto incerto è il futuro di Hamas. Nei 20 punti stabiliti da Trump, e sottoscritti da Netanyahu, si ordina alle milizie islamiche di consegnare le armi e rinunciare a partecipare al governo della Striscia: per l’organizzazione che gestisce il potere a Gaza dal 2007 significherebbe la fine. Ecco perché questo è uno dei nodi più scottanti nei negoziati in corso in Egitto.

    Ma un altro ostacolo, per il piano della Casa Bianca, potrebbe arrivare anche da Israele, dove la destra estrema è infuriata contro Netanyahu, a cui rimprovera eccessiva morbidezza per aver accettato il No all’annessione della Striscia e per non essersi impuntato sul punto che lascia presagire – seppur in un futuro che appare molto lontano – la nascita di uno Stato palestinese. Lo stesso premier, peraltro, sa bene che la cessazione del conflitto segnerebbe anche l’epilogo della sua carriera politica. Sarà interessante vedere a quale prezzo “Bibi” accetterà di uscire di scena.

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