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    Fare un figlio dal carcere

    La storia dei prigionieri palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane e il contrabbando del liquido seminale

    Di Paola Sangregorio
    Pubblicato il 4 Mar. 2014 alle 01:27 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 09:05

    Contrabbandare il liquido seminale dei prigionieri palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane per permettere alle loro mogli di procreare grazie al metodo della fecondazione in vitro.

    Questa sembra essere la nuova forma di “lotta” del popolo palestinese contro le politiche detentive di Tel Aviv. Secondo il Time, alla fine del 2013 si sono già registrate sei nascite e altre sedici donne sono rimaste incinte grazie alla tecnica di inseminazione artificiale.

    Leedia Rimawi, una delle donne protagoniste di questi casi, ha dichiarato che quello che lei e le altre mogli hanno ottenuto è un “risultato politico”. Proprio riportando la storia di Leedia, Karl Vick del Time sottolinea infatti che la resistenza e la spinta demografica, principali tattiche palestinesi contro l’occupazione israeliana, sono ben sintetizzati in questa recente e dilagante “strategia”.

    Il primo caso risale all’agosto del 2012 quando Dala al-Zabin dette alla luce il suo primo figlio, dopo aver seguito questa procedura. Rivolgendosi alla stampa locale la donna dedicò la nascita “al popolo palestinese, ai prigionieri e alle loro famiglie”, e aprì così la strada a molte altre donne nella sua stessa situazione.

    Una di loro, Hana, ventiseienne di Beit Hanun, nella striscia di Gaza, ha raccontato la propria storia ad Al Jazzera. Il marito Tamer al-Zaanin è stato arrestato dall’esercito israeliano nel 2006, dopo solo un mese e mezzo dal loro matrimonio. Accusato di essere attivo nel gruppo terroristico della “Jihad Islamica”, Tamer è stato condannato a 12 anni di reclusione nel carcere di Rimon, nel sud di Israele. Ad Hana è stato concesso di vedere Tamer per la prima volta solo l’anno scorso, dopo sette anni dalla sua cattura.

    Le visite ai prigionieri palestinesi non possono durare più di 45 minuiti; marito e moglie parlano al telefono, guardandosi l’un l’altra attraverso un pannello di vetro che li separa. Ogni contatto fisico è vietato per non meglio specificate “ragioni di sicurezza”. La ragazza, con il sostegno della famiglia e della comunità religiosa, propone al marito di tentare questa strada e Tamer accetta senza esitazione.

    Mentre molte donne si sono mostrate schive nel raccontare come siano riuscite a eludere i controlli dei carcerieri, Hana ha invece raccontato come la decisione israeliana di concedere ai figli dei carcerati di abbracciare i propri padri per qualche minuto abbia permesso a lei e a al marito di diventare genitori. Il liquido seminale di Tamer, racchiuso in un contenitore di plastica, è stato così infilato dal fratello di Hana, anch’egli prigioniero a Rimon, nella giacca di suo figlio.

    La provetta, dopo sei ore di viaggio e dopo essere passata inosservata ai rigidi controlli del checkpoint di Erez, che collega Israele con la parte Nord della Striscia, arriva al Centro privato Basma a Gaza City per la fecondazione. Il piano di Hana si è svolto senza intoppi e si è concluso con la nascita del piccolo Hassan a metà gennaio 2014. Tamer l’ha sentito piangere per la prima volta, al telefono.

    In molti altri casi però, come ricorda il ginecologo che ha seguito Hana, Abdel-Kareem Hindawi, la fecondazione fallisce per diversi motivi, soprattutto nei casi in cui i campioni di liquido sono sottoposti a lunghi tragitti e a temperature elevate. Anche Salem Abu Khaizaran, medico di Nablus, in Cisgiordania, ha dichiarato al Guardian che nella clinica in cui opera, sebbene siano state 22 le donne fecondate con il liquido seminale di contrabbando, sul totale dei casi il tasso di successo rimane molto basso.

    Fouad al-Khafsh, il direttore dell’Ahrar, il centro di studi che supporta i prigionieri palestinesi e denuncia le violazioni delle politiche detentive israeliane, ha dichiarato ad Al Jazeera che “il trasporto illegale dello sperma dalle prigioni costituisce una vera sfida per i carcerieri israeliani”. Al-Khafsh racconta che sono dozzine i prigionieri che tentano questa strada, soprattutto quelli condannati a pene particolarmente lunghe o all’ergastolo.

    In risposta, la portavoce del servizio carcerario israeliano, Sivan Weizman, si è detta scettica che un simile sotterfugio possa eludere i severi controlli per i visitatori dei prigionieri. “Le donne che fanno visita al carcere non possono avere nessun contatto diretto con i detenuti e quando se ne vanno sono sottoposte a controlli.”

    Come ricordato dal Guardian, mentre le visite coniugali sono vietate ai palestinesi, sono invece permesse ad alcuni prigionieri israeliani. All’ergastolano Yigal Amir, l’israeliano che assassinò il Primo Ministro Rabin nel 1995, è stato concesso di sposarsi e successivamente di ricevere, nel 2006, una vista della moglie di ben dieci ore. Nell’ottobre dell’anno seguente la moglie Larisa Trombobler ha dato alla luce il loro primo figlio.

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