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    L’Europa non è il luogo più pericoloso dell’occidente

    Il commento del giornalista italiano Davide Vavassori

    Di TPI
    Pubblicato il 14 Nov. 2015 alle 18:26 Aggiornato il 11 Set. 2019 alle 01:32

    L’editoriale di Lucia Annunziata per Huffington Post afferma che il “vecchio mondo, come ci chiamano, è tornato ad essere il luogo più pericoloso dell’Occidente”. Ma non è così per tre motivi.

    Anzitutto non ha senso trasformare l’Europa, anche solo a parole, in un luogo di paura in cui sentirsi minacciati. Un luogo in cui, secondo Annunziata, “possiamo nasconderci nelle nostre case” ma resteremo comunque vulnerabili perché “chi ci attacca è dentro di noi, sa tutto delle nostre abitudini, dei luoghi dove amiamo andare in vacanza, e dei bar, ristoranti e sale da cinema o da ballo dove passiamo le sere dei fine settimana”.

    Se l’obiettivo dei terroristi è di ridistribuire la percezione di vulnerabilità nei paesi occidentali, così che chi passeggia per Roma o Parigi tema per la propria vita come chi gironzola per Kabul o Baghdad, le parole di Annunziata dimostrano che ci sono riusciti perfettamente. 

    Esasperando i fatti, Lucia Annunziata assolutizza nella chiusura delle frontiere francesi un atto di sconfitta della difesa dei diritti e delle politiche di integrazione europea. È ingiusto innalzare a icona di fallimento un atto contingente di sicurezza nazionale che verrà con ogni probabilità ritirato entro poco tempo. 

    In secondo luogo non è vero che “il tipo di operazione che abbiamo visto a Parigi, è ormai sempre la stessa negli ultimi mesi”, né che i piccoli gruppi ad oggi identificati dell’Isis sono “la forma più pericolosa di organizzazione che abbiamo finora incontrata”.

    È vero semmai il contrario: gli attentati di Parigi sconvolgono quello che fino a oggi sapevamo dell’operatività dell’Isis in Europa, ma rappresentano comunque una forma di organizzazione terroristica già vista, in particolare in Italia.

    Gli attentati a Charlie Hebdo, a Copenaghen e a Ottawa potevano giustamente essere classificati come opera di cani sciolti e disorganizzati da operazioni collegate e centralizzate. Le violenze di questa notte tuttavia ci dicono altro.

    Una serie di azioni coordinate, scattate all’unisono in diverse aree di Parigi e orchestrate da un’unica programmazione, testimoniano un salto di qualità che aumenta la pericolosità e la paura che l’Isis è in grado di scatenare. 

    È necessario ricostruire al più presto la rete di contatti che ha permesso una sintonia così devastante e risalire fin dove possibile le catena di comando che ha organizzato l’assalto.

    Perché se da una parte la maggiore organizzazione di un gruppo terroristico ne incrementa l’efficacia, dall’altra ne aumenta la vulnerabilità.

    I gruppi terroristici si dividono in due categorie: quelli che hanno un alto grado di centralizzazione della struttura organizzativa e quelli costituiti da cellule che operano in maniera indipendente.

    Entrambe le tipologie hanno punti di forza e punti deboli, e lo sa bene l’Italia, che negli anni di piombo ha dovuto affrontare entrambi i tipi di organizzazioni terroristiche. 

    Se Francia e Unione Europea svilupperanno un’azione investigativa coordinata all’interno e all’esterno dei confini europei, potranno sfruttare la maggiore centralizzazione organizzativa dell’Isis contro lo stesso sedicente Stato islamico.

    Non trattandosi di lupi solitari, identificando un appartenente del gruppo estremista, sarebbe più semplice risalire anche agli altri. 

    Infine, non ha senso scatenare il panico affermando che l’Europa sia teatro di una Terza guerra mondiale e luogo più pericoloso dell’occidente quando fino a ieri sembrava che tutto andasse alla grande.

    Gli attentati non vanno certamente sottovalutati ed è solo attraverso quei diritti europei, che Annunziata addita come sconfitti nella chiusura delle frontiere, che si potrà raggiungere una soluzione definitiva.

    Oggi François Hollande ha dichiarato che gli attentati a Parigi sono “un atto di guerra” e queste parole dovrebbero richiamare alla mente dei leader europei un’altra situazione drammatica in cui furono pronunciate.

    Quando l’11 settembre 2001 George Bush denunciò l’attentato alle torri gemelle come “atto di guerra”, i partner europei si smarcarono all’unisono dal Presidente americano, affermando che per loro quello era un “atto di terrorismo”. 

    La differenza abissale fu che gli Stati Uniti vissero il successivo periodo come un “tempo di guerra”, in cui ogni strumento era legittimo per la sconfitta del nemico (restrizione delle libertà personali, Patrioct Act, incremento delle torture a Guantanamo), mentre l’Europa lo visse come un “tempo di pace” in cui organizzare missioni sporadiche sotto invito americano.

    Oggi l’Unione europea deve rispondere alla sfida dell’Isis con una voce sola e ogni leader europeo deve decidere se sottoscrivere la dichiarazione di Hollande e riconoscere gli attentati di Parigi come “atto di guerra” oppure no.

    Se i leader europei saranno in grado di prendere posizioni comuni e l’Ue dichiarerà di essere entrata in un “tempo di guerra”, allora Bruxelles sarà chiamata a realizzare quello che non ha fatto negli ultimi vent’anni: una politica estera comune – resa inagibile da poteri di veto incrociati – , una politica di difesa comune e una politica di gestione e integrazione degli immigrati coordinata.

    Se i leader europei saranno in grado di canalizzare l’enorme empatia che ogni cittadino europeo mostra in questo momento di dolore nei confronti del popolo francese in un’azione convinta di condivisione dei poteri nel settore dalla difesa e della politica estera, potremo trasformare la sfida jihadista in un rilancio per il processo di unificazione europeo.

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