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    L’esercito dei figli di Boko Haram

    Violentate per essere messe incinta di futuri guerrieri. Le prigioniere di Boko Haram, ora libere, raccontano le violenze subite

    Di Sabika Shah Povia
    Pubblicato il 14 Mag. 2015 alle 16:59 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 21:50

    “I miliziani di Boko Haram hanno una certa convinzione spirituale per la quale sostengono che i loro figli cresceranno ereditando la loro stessa ideologia, anche qualora non dovessero vivere al loro fianco”.

    Così il governatore dello stato federale nigeriano del Borno, Kashim Shettima, ha cercato di spiegare al quotidiano nigeriano The Punch perché, delle 234 ragazze liberate dall’esercito nigeriano all’inizio di questo mese, almeno 214 sarebbero rimaste incinte.

    “Dopo aver messo incinta le loro prigioniere, le trattengono per almeno quattro mesi dall’inizio della gravidanza per rendere difficile, se non impossibile, l’aborto,” ha continuato. “Poi, molto spesso, abbandonano le donne che in molti casi ritornano a casa”.

    Il 2 maggio scorso l’esercito nigeriano aveva liberato le 234 donne tenute prigioniere nella foresta di Sambisa dal gruppo estremista Boko Haram, nel nordest della Nigeria.

    La cosa più spaventosa riguardo tutta la vicenda è proprio la convinzione da parte dei miliziani di aver in qualche modo dato vita a un piccolo esercito che porterà avanti la loro battaglia anche a distanza: l’esercito dei loro figli.

    Le donne sono state messe incinta di proposito. Alcune raccontano di esser state trattate come delle “macchine del sesso”.

    “Sono stata rapita sei mesi fa a Delsak, quando il nostro villaggio è stato conquistato da Boko Haram,” ha raccontato Asabe Aliyu, di 23 anni, al quotidiano Daily Times nigeriano.

    “Prima ci siamo fermati in una foresta vicino al confine con il Camerun, dove mi hanno trasformata in una macchina del sesso. Facevano a turni per dormire con me. Ora sono incinta, e non riesco neanche a identificarne il padre”.

    Alla fine del 2014, nel nordest del Paese – ovvero l’area in cui il gruppo estremista Boko Haram è maggiormente attivo – il fondo delle Nazioni Unite per le popolazioni in stato di crisi (Unfpa) aveva aiutato 16.350 donne a partorire in maniera sicura all’interno delle sue strutture.

    Durante i mesi di prigionia, ad alcune donne veniva data la scelta: sposare un membro di Boko Haram o diventare schiave. Secondo le testimonianze delle ragazze liberate, la maggior parte dei miliziani è circondato da più donne – tra tre e cinque -, cosiddette “mogli” o “schiave sessuali”, a testa.

    Le schiave dovevano inoltre cucinare e badare al campo base dove erano detenute come prigioniere, mentre i miliziani spesso le insultavano. Se si rifiutavano, venivano picchiate.

    Altre donne liberate raccontano di esser state legate e maltrattate, costrette a mangiare mais secco. Alcune hanno riferito di aver finto di essere matte pur di non essere avvicinate.

    Boko Haram considera infedeli tutti coloro che non condividono la loro ideologia. Per questo motivo, il marito della ventisettenne Lami Musa era stato ucciso dal gruppo estremista quando lei era incinta di quattro mesi.

    Le avevano detto che sarebbe stata costretta a sposare uno dei loro comandanti la settimana dopo aver partorito, invece è stata messa in salvo dall’esercito il giorno dopo.

    Stanca e ancora gonfia dopo il parto, con in braccio una bambina di tre giorni, ha raccontato come a volte passava giorni interi senza cibo o acqua. Trattenendo le lacrime a stento, ha aggiunto: “Ancora non conosco le condizioni di mia figlia: né io né lei ci siamo ancora potute lavare da quando è nata”.

    La maggior parte delle ragazze liberate soffre di gravi traumi psicosociali e l’Unfpa è al lavoro per aiutarle a reinstaurare la loro dignità personale.

    “In zone di conflitto o aree colpite da disastri naturali, la maggior parte delle persone pensa a procurare acqua, medicinali, alloggi e cibo, che sono tutte cose molto importanti”, ha detto il direttore esecutivo dell’Unfpa Babatunde Osotimehin, secondo quanto riportato dal quotidiano nigeriano Vanguard.

    “Ma le donne e le ragazze hanno bisogni specifici a cui nessun altro sta badando”.

    Maryamu Adamu è convinta di esser stata all’inferno per i nove mesi in cui era prigioniera nella foresta di Sambisa. Non sa se suo marito e i loro due figli siano ancora vivi.

    “So che fino a poco fa ero morta. Ma sono qui adesso, e mi sento finalmente viva. Ringrazio Dio che lo sono. Ringrazio Dio”, ha detto.

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