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    L’esercito birmano ha ammesso per la prima volta di aver ucciso alcuni militanti rohingya

    L'esercito birmano ha ammesso sulla sua pagina Facebook il coinvolgimento di alcuni suoi soldati nel massacro di dieci Rohingya, avvenuto il 2 settembre 2017

    Di Noemi Valentini
    Pubblicato il 11 Gen. 2018 alle 17:46 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 19:24

    L’esercito birmano ha ammesso sulla sua pagina Facebook il coinvolgimento di alcuni suoi soldati nel massacro di dieci rohingya, avvenuto il 2 settembre 2017 nel villaggio di Inn Din, nello stato di Rakhine.

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    “Le forze di sicurezza avrebbero dovuto portare i dieci terroristi bengalesi alla stazione di polizia ma, si è scoperto, hanno deciso di ucciderli nel cimitero”, si legge sul Tatmataw True News Information Team. 

    La dichiarazione del 10 gennaio 2018 è il risultato di un’indagine interna all’esercito partita il 20 dicembre 2017 e condotta dal tenente generale Aye Win, le cui precedenti indagini sul comportamento delle truppe birmane nel conflitto con la popolazione rohingya avevano negato che queste avessero commesso qualsiasi atrocità.

    Per quanto parziale e volta a dimostrare la necessità del delitto e la pericolosità delle vittime, si tratta pur sempre di una dichiarazione storica: dall’inizio della crisi è la prima volta infatti che autorità birmane si prendono la responsabilità di azioni di questo tipo.

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    Il rapporto dell’indagine si riferisce ai rohingya chiamandoli “terroristi” o, in linea con il governo birmano, “bengalesi”, appellativo rifiutato dalla popolazione perché implica l’idea che essi siano non una minoranza etnica birmana bensì un gruppo immigrato clandestinamente dal Bangladesh.

    Dall’indagine i fatti appaiono come una conseguenza delle crescenti tensioni fra i diversi gruppi etnici della zona.

    A partire dal 25 agosto 2017, i rohingya avrebbero avuto nei confronti degli abitanti del villaggio di Inn Din (in posizione di netta minoranza) atteggiamenti minacciosi e aggressivi, tanto da spingerli a temere per la propria incolumità e chiedere la protezione delle forze armate.

    Leggi anche: SPECIALE: la crisi dei rohingya in Birmania

    Le forze di sicurezza, intervenute 1 settembre 2017, sarebbero state attaccate da oltre 200 “bengalesi” con bastoni e spade: in quell’occasione sono state arrestate le dieci vittime, che alle 8 della mattina del 2 settembre dopo sono state scortate nel cimitero da paesani e militari per poi essere costretti ad entrare in una fossa scavata al momento.

    Lì sono stati trafitti con spade e colpiti dai proiettili dell’esercito.

    Due degli assassini sono i figli di U Maung Ni, che stando al rapporto dell’esercito era stato ucciso senza motivo dai “terroristi bengalesi”.

    Il post dichiara che saranno presi provvedimenti contro i civili e i militari coinvolti, contro gli ufficiali che hanno omesso di riportare il fatto ai livelli superiori e contro chi avrebbe dovuto supervisionare l’operazione.

    Leggi anche: Ogni settimana 12mila bambini rohingya fuggono dalla Birmania, secondo l’Unicef

    Dopo il 25 agosto 2017, a seguito degli attacchi dei militanti rohingya contro alcuni avamposti di polizia, l’esercito ha attuato una pesantissima controffensiva che ha portato all’esodo di centinaia di migliaia di persone in Bangladesh, in quella che Onu e Stati Uniti definiscono una vera e propria pulizia etnica, ma la Birmania ha sempre negato le atrocità.

    I tentativi di approfondire la questione risultano fortemente ostacolati: Yanghee Lee, investigatrice sui diritti umani per le Nazioni Uniti, è stata bandita dallo stato nel dicembre 2017 con l’accusa di non essere imparziale ed oggettiva.

    Recentemente i due giornalisti di Reuters Wa Lone e Kyaw Soe Oo, impegnati proprio in ricerche sullo stato di Rakhine, sono stati messi sotto accusa secondo l’Official Secrets Act, che può portare alla reclusione fino a 14 anni.

    Leggi anche: L’esercito birmano ha stuprato centinaia di bambine rohingya

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