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    Esclusivo TPI – Reportage Ecuador criminale italian style: il Paese ostaggio delle narco-gang guarda alla nostra anti-mafia

    Credit: AP Photo

    Controllano il narcotraffico, comandano in carcere e uccidono impunemente. Ultima vittima un candidato presidente. Le “pandillas” seguono l’esempio di Raffaele Cutolo. Così, per battere le gang, lo Stato emula l’anti-mafia nostrana

    Di Vittorio Romeo
    Pubblicato il 10 Set. 2023 alle 07:00 Aggiornato il 21 Set. 2023 alle 10:14

    Fino allo scorso 9 agosto, giorno dell’uccisione del candidato presidenziale Fernando Villavicencio, la violenza delle «pandillas» che da anni sta insanguinando l’Ecuador era un tema in gran parte sconosciuto ai mass media europei. Il brutale assassinio dell’ex giornalista d’inchiesta, rivendicato dall’organizzazione criminale «Los Lobos» che annovera ottomila affiliati, non ha fermato l’iter verso le elezioni: una tornata elettorale che si concluderà il prossimo 15 ottobre, quando al ballottaggio si sfideranno la leader del movimento Revolución Ciudadana, Luisa Gonzalez, e l’esponente dell’alleanza Adn, Daniel Noboa.

    Tralasciando per un momento la questione di chi guiderà il Paese sudamericano e alla luce delle stagioni di efferatezza che sta vivendo, alcuni esperti si domandano se Quito sarà in grado di arginare l’instabilità politica e la scia di sangue, generate principalmente dalla criminalità organizzata locale, che ha reso l’Ecuador uno tra gli snodi cruciali dello scacchiere mondiale del narcotraffico.

    Normalizzazione
    Un ruolo fondamentale per l’obiettivo di «normalizzare» questo Stato è assegnato al progetto Euresp: il Programma di risposta d’emergenza dell’Unione europea per rafforzare il sistema carcerario dell’Ecuador, avviato il primo settembre 2022 con un lasso temporale di 18 mesi. In questa iniziativa, affidata all’Iila (Organizzazione internazionale italo-latino americana), l’Italia con il suo pool di esperti e magistrati antimafia rappresenta un punto di riferimento.

    «L’Europa ci ha messo a disposizione 2,5 milioni di euro: fondi che hanno come scopo finale la messa in sicurezza delle carceri più pericolose dell’Ecuador e – spiega a TPI il direttore dei programmi di cooperazione dell’Iila, Lorenzo Tordelli – il secondo obiettivo è la formazione del personale penitenziario». La progettazione del programma è curata dal consigliere giuridico del ministero degli Affari Esteri, Giovanni Tartaglia Polcini, il suo attuatore sul campo è il magistrato Paolo Di Sciuva. Ma qual è la realtà all’interno delle carceri ecuadoriane? «I criminali delle pandillas sono ben consapevoli del fatto che se non comandi dentro le prigioni non puoi farlo anche fuori. Si ammazzano nelle case circondariali – spiega a TPI Di Sciuva – per affermare la loro supremazia pure all’esterno, proprio ispirandosi al “modello” del boss campano Raffaele Cutolo».

    Come detto la violenza nelle galere dell’Ecuador ha radici lontane. È il 28 dicembre 2020 quando a Manta Jorge Luis Zambrano Gonzalez, alias Rasquiña e boss dei «Choneros», viene ammazzato da uno sconosciuto. Da allora la mattanza ha colpito tutte le aree del Paese, ribadendo ancora una volta che la ferocia non è circoscritta al carcere. Tra le prove evidenti di questa escalation ci sono le quindici autobombe esplose lungo le strade di Guayaquil nel novembre 2022 e la strage di Esmeraldas dello scorso 12 aprile.

    Il porto di questa località, proprio insieme a quello di Guayaquil, rappresenta l’asset forse più prezioso dei narcotrafficanti ecuadoriani. Le immagini impietose dell’eccidio, in cui un commando di 30 persone ha massacrato nove innocenti (pescatori e commercianti) che rifiutavano di pagare il pizzo, spiegano bene il grado di violenza che attualmente si respira nel Paese sudamericano. Durante i primi frame di un filmato di una telecamera di sicurezza si vede una decina di persone che scappano via terra, altri «condannati a morte» si tuffano in acqua.

    Nel frattempo i motoscafi blu da dove proviene il rumore degli spari si avvicinano a tutta velocità, fino a quando non raggiungono il piccolo molo ripreso nell’inquadratura. I sicari, alcuni a volto coperto, sparano con armi di alto e medio calibro. C’è persino chi fa fuoco con l’Uzi (storica mitragliatrice in dotazione all’esercito israeliano). Poi in un’altra immagine, che viene in parte oscurata, due uomini provano inutilmente a nascondersi dentro un magazzino: un criminale li scova e preme il grilletto, colpendo a bruciapelo. Prima l’uno e poi l’altro cadono a terra.

    Dopo gli episodi più cruenti i clan hanno diffuso e diffondono sui social network video in cui rivendicano, minacciano o si smarcano dai fatti di sangue. «Comunicati stampa», comuni alla maggior parte delle organizzazioni sudamericane, con messaggi diretti e indiretti. Come per esempio quello dello scorso 26 luglio, dove cinque membri e il capo dei «Choneros» depongono le armi su un tavolo in segno di tregua.

    La guerra allo Stato
    I dati sulle morti violente in carcere possono essere considerati una cartina di tornasole per comprendere ciò che accade fuori dalle galere. Nel 2019 si registravano 19 decessi nelle prigioni del Paese; nel 2020, 50 vittime; nel 2021, 330 omicidi (di cui 118 nel mese di settembre nella casa circondariale «El Litoral» che ne ospita 9.500) e nel 2022, 144. Al 30 giugno del 2023, il dato registrato è di 16 morti, senza dimenticare che la popolazione carceraria complessiva ammonta a circa 30mila persone. E nell’intero Ecuador vivono 18 milioni di abitanti. 

    Nonostante questi numeri il contributo italiano ha garantito allo Snai (ente autonomo che gestisce il sistema penitenziario, una specie di Dap) di formare 1.400 nuovi tirocinanti, 200 membri delle Unità speciali e reperire 36 formatori. Ma c’è di più, perché nei prossimi mesi, se dovessero essere varati i decreti attuativi, proprio lo Snai potrebbe diventare definitivamente un ministero, dopo che nella precedente legislatura è stata emanata una legge ad hoc. L’istituzione è una spina nel fianco dei criminali, al punto che nello scorso mese di luglio era circolata sempre via social la notizia, poi rivelatasi una bufala, che nei pressi della sede fossero stati piazzati dei cecchini pronti a colpire i suoi membri.

    C’è un’altra circostanza che almeno fino alla morte di Villavicencio ha creato non pochi grattacapi al sistema penitenziario ecuadoriano, ossia l’impossibilità di separare dai criminali comuni e trasferire in sezioni speciali gli appartenenti alle «pandillas». Come accade in Italia grazie al 41-bis. Pochi giorni dopo l’omicidio, invece, circa quattromila tra militari e poliziotti hanno spostato nel supercarcere «La Roca» uno dei presunti mandanti dell’attentato: il boss narcotrafficante José Adolfo Macías Villamar, meglio noto come «Fito».

    Nell’operazione sono stati impiegati non solo uomini pesantemente armati ma anche veicoli blindati che sono entrati nel centro di detenzione numero otto di Guayaquil. Da dove è stato prelevato un uomo robusto e con la barba folta. Adesso vive per 23 ore al giorno (esclusi i 60 minuti nel cortile in compagnia di una guardia) in una delle 36 celle individuali. Proprio qualche giorno prima di essere ammazzato Villavicencio ha denunciato le minacce di morte ricevute da «Fito», boss dei «Choneros». Inevitabile e dura la reazione della vedova del cronista d’inchiesta Veronica Sarauz che durante una conferenza stampa, munita di elmo e giubbotto antiproiettile, ha detto: «Lo ha ucciso lo Stato». Eppure a oggi l’unico punto fermo sul piano investigativo è che le sei persone arrestate per l’assassinio di Villavicencio sono tutte colombiane.

    Quest’ultima circostanza non può passare inosservata perché nel corso dei decenni le sanguinarie gang ecuadoriane sono cresciute all’ombra e sul calco dei cartelli colombiani e messicani, che utilizzano il loro relativamente piccolo Paese come area di passaggio fondamentale nel traffico internazionale di droga. Adesso, però, sono un alleato insostituibile, in particolare per il tristemente noto cartello di Sinaloa.

    Modello tricolore
    Sulla drammatica situazione dell’Ecuador è intervenuto l’ex consigliere laico del Csm, Stefano Cavanna: «I governi dell’America Latina sono molto attenti al modello italiano che il nostro Paese nel comparto della giustizia ha elaborato negli anni per contrastare la criminalità organizzata di stampo mafioso. Quel che fa più specie è che l’interesse dei governi sudamericani è significativamente rivolto proprio a quegli istituti che oggi sono oggetto di discussione non solo mediatica, ma anche di ridimensionamento “giuridico” in campo nazionale ed europeo con la recente giurisprudenza limitativa». 

    Sul fatto che la legislazione italiana stia facendo scuola all’estero sembrano esserci pochi dubbi, dato che «nello scorso maggio è entrata in vigore nell’ordinamento ecuadoriano una norma mutuata dal nostro 416 bis che introduce la nozione di associazione per delinquere di stampo mafioso», conclude Cavanna.

    Ramificazioni internazionali
    Il percorso è tracciato ma la strada verso la stabilizzazione è ancora lunga. A sostegno di tale tesi c’è il rapporto “Persone private della libertà in Ecuador”, redatto dalla Commissione interamericana dei diritti umani.

    Lo studio mette in luce il fatto che lo Stato non avrebbe il controllo effettivo sulle carceri: interi padiglioni che per anni sono stati off-limits per le forze dell’ordine, ingresso di armi e droghe dietro le sbarre (nell’intervento del 4 agosto al «Litoral» sono stati sequestrati 26 chilogrammi di sostanza stupefacente), utilizzo di droni di alta qualità in mano alle gang nella fase più dura delle rivolte (l’ultima avvenuta lo scorso 30 agosto nell’istituto penitenziario di «El Turi»), corruzione e allevamenti illegali di animali sono alcuni tra i fattori che raccontano il microcosmo carcerario ecuadoriano. Concretamente quindi le istituzioni, al fine di riprendere in mano la situazione, stanno spingendo verso un programma di massima sicurezza a elevato indice di vigilanza.

    Eppure le «pandillas» non generano allarme e preoccupazione solo a Quito. Le ramificazioni delle gang hanno solide radici pure in Europa. Nella fattispecie la Spagna lo scorso 25 agosto ha realizzato con l’operazione «Nano» il più grande sequestro di cocaina della sua storia: 9,5 tonnellate (per la precisione 9.436 chilogrammi) di polvere bianca, suddivisa in tavolette e nascoste in un container frigo con un carico di banane è stata trovata nel porto di Algesiras (Cadice). La droga partita dal Paese sudamericano sarebbe prima dovuta arrivare in Portogallo e poi essere affidata a una trentina di distributori europei. Basta sfogliare le cronache delle maggiori operazioni contro il narcotraffico per identificare almeno altri due terminali di approdo della sostanza stupefacente in Europa: Paesi Bassi e Belgio.

    Un Paese al bivio
    Nelle ultime settimane la comunità internazionale ha seguito con notevole attenzione almeno altri due eventi ecuadoriani: la prima fase della tornata elettorale del 20 agosto e il contemporaneo referendum sullo sfruttamento petrolifero in Amazzonia. Il 33,1% degli elettori ha votato per Luisa Gonzalez, la candidata del partito di sinistra Revolución Ciudadana, vicina all’ex presidente progressista Rafael Correa, oggi in esilio in Belgio (condannato in via definitiva per corruzione); il rappresentante del movimento Azione democratica Daniel Noboa Azin, figlio del magnate locale dell’industria delle banane, ha ottenuto il 24% delle preferenze. Uno tra i due prenderà il posto dell’uscente Guillermo Lasso che ha sciolto le camere lo scorso maggio.

    Particolarmente rilevante in chiave economica e ambientale l’esito del referendum sulle trivellazioni petrolifere nel parco nazionale Yasuni, in Amazzonia, e per l’estrazione di minerali e oro nel Choco Andino, non lontano da Quito. Con il loro voto, per la precisione il 58,98% degli elettori, gli ecuadoriani hanno fermato lo sfruttamento. Prima dello stop i pozzi del Blocco 43 producevano fino a 58.016 barili di oro nero al giorno. La scelta popolare determina almeno due conseguenze importanti: da una parte la perdita per le casse dello Stato di 16.470 milioni di dollari nei prossimi vent’anni e l’eliminazione di oltre 60mila posti di lavoro; dall’altra la protezione senza precedenti delle foreste, in parte abitate dagli indigeni, dichiarate riserva della biosfera dall’Unesco nel 1989.  

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