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    Quali saranno le prossime mosse di Erdogan?

    Ecco quali sono le tappe che hanno condotto alla vittoria del Sì al referendum e i prossimi obiettivi del presidente. L'analisi di Massimiliano Fanni Canelles

    Di Massimiliano Fanni Canelles
    Pubblicato il 18 Apr. 2017 alle 12:23 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 21:28

    Recep Tayyip Erdogan, l’attuale presidente della Turchia, inizia la carriera politica negli anni ’70, fonda il partito Adalet ve Kalkınma Partisi (Akp) di ispirazione islamico sunnita e ricopre il ruolo di sindaco di Istanbul. Conservatore da sempre, nel 1998 viene arrestato per incitamento all’odio religioso. Nel 2003 diventa primo ministro e lo rimane fino al 2014 quando viene eletto presidente della Turchia.

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    Negli anni tenta progressivamente di istituzionalizzare la religione islamica in uno stato con una costituzione laica. A causa di contrasti con le opposizioni, soprattutto curde, il suo partito Akp nel 2015 perde la maggioranza alla camera e nel 2016 un tentato golpe tenta di estrometterlo dal potere. Il golpe però diventa il mezzo e la scusa per rafforzare il suo potere permettendo l’epurazione delle opposizioni politiche e sociali. Viene dichiarato lo stato di emergenza, ancora attivo, vengono arrestate 43mila persone, licenziati oltre 136mila dipendenti pubblici: magistrati, docenti, poliziotti e militari.

    Nel giorno della Pasqua cristiana Erdogan ha chiesto al popolo di autorizzarlo a sempre più forti poteri esecutivi. Il referendum è servito ad approvare una riforma costituzionale che prevede il passaggio dal sistema parlamentare a quello presidenziale. I 18 nuovi articoli non hanno alcun paragone con qualsiasi principio democratico conosciuto, ma hanno molto in comune con le dittature del medio oriente. I punti principali della riforma comportano l’abolizione del primo ministro, la possibilità per il presidente di nominare e licenziare i ministri senza consultazione parlamentare, di nominare direttamente quattro dei tredici giudici dell’alta corte, di nominare i vertici dell’esercito e dei servizi segreti, i rettori delle università e i vertici di istituzioni del potere giudiziario.

    Da anni il partito di governo Akp incoraggia l’istruzione religiosa, per fare un esempio ha restaurato l’uso del velo per le donne che era stato bandito negli uffici pubblici, nelle università e in parlamento. “La nuova costituzione non dovrebbe essere secolarista”, ha detto Ismail Kahraman, presidente del parlamento turco, “deve affrontare il tema della religione. Questa nuova costituzione non deve essere irreligiosa ma al contrario deve essere una costituzione religiosa”.

    In Turchia il 99 per cento della popolazione è di religione islamica, la stragrande maggioranza dei 78 milioni di abitanti fa parte della fazione sunnita, un quinto è di religione alevista che si rifà alle tradizioni sciita. Un sondaggio condotto nel 2013 dall’istituto Pew Research Center evidenziava che il 12 per cento dei turchi sarebbe favorevole alla shari’a, il diritto islamico, come legge ufficiale.

    In ogni caso, il percorso della Turchia ormai si proietta verso un estremismo religioso e politico. L’Akp è del resto una filiazione del Fratelli musulmani. Sei mesi fa Orhan Pamuk, premio Nobel per la letteratura, ha scritto: “la libertà di pensiero non esiste più. Stiamo distanziandoci ad alta velocità da uno stato di diritto e verso un regime di terrore”.

    Per quanto riguarda la consultazione elettorale, gli osservatori esterni evidenziano che il tempo concesso dalla televisione pubblica e dai giornali a sostenitori del “no”, che non vuole la costituzione proposta da Erdogan, è stato infinitamente minore rispetto a quello ottenuto dal partito Akp. Non c’è da stupirsi che nell’indice della libertà di stampa, stilato nel 2016 da Reporter sans frontieres, la Turchia oggi si colloca al 151° posto su 180 paesi analizzati.

    Inoltre l’opposizione al presidente, formata dal Partito Popolare Repubblicano (Chp) è rimasta isolata dopo che il fronte del “no” ha subito numerose limitazioni con gli arresti dei leader e di molti deputati del Partito democratico dei popoli (Hdp). Ben 55 su 59 parlamentari sono accusati di “terrorismo” e di legami al Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), organizzazione paramilitare illegale.

    In questo contesto il “si” ha vinto e il presidente ora ha potere assoluto. Il paese è comunque spezzato. La vittoria è risicata (51 per cento) e già si parla di brogli elettorali. La missione Osce critica il referendum che ha sancito la vittoria di Erdogan. Le opposizioni chiedono la cancellazione del referendum. Non c’è accordo fra gruppi islamici sunniti conservatori e gruppi islamici democratici più filo occidentali. L’elettorato curdo, che si contrappone al presidente, è ampio ed agguerrito e controlla il confine siriano e iracheno e i territori orientali della Turchia. L’Europa e l’occidente infine prenderanno sempre più le distanze dalla Turchia.

    A questo punto Erdogan tenterà di creare maggiori relazioni con gli stati islamici sunniti ma anche con la Russia di Putin. Probabilmente quest’ultimo elemento potrebbe essere la carta vincente di Erdogan perché diventerebbe l’elemento di disturbo alla coalizione sciita fra Iran e Siria e la Russia appunto. Ma non solo, l’avvicinamento alla Russia da parte di Erdogan farebbe quindi gioco alle potenze arabe sunnite ma cambierebbe di molto anche gli equilibri militari, soprattutto quelli interni alla Nato di cui la Turchia è partner dal 1952. Infine non sarà indifferente anche la questione Siriana con Assad che cerca in ogni modo di evitare che Erdogan e Putin si possano alleare per non perdere la protezione Russa.

    Per concludere, il regime di Erdogan, indipendentemente dal risultato referendario, è alla ricerca di una soluzione interna che possa costringere la popolazione ad una unità d’intenti e questo lo ricerca, non con forme democratiche, ma istituzionalizzando l’estremismo religioso, cercando di portare il governo verso una forma più autocratica dell’esecutivo e mantenendo l’applicazione dello stato di emergenza.

    Ma Erdogan vuole anche una legittimazione internazionale e tenta di diventare il perno di tutto il Medio Oriente. Vuole ricattare l’Unione europea con il flusso delle migrazioni ma anche con la sua forza militare nell’Alleanza atlantica, è l’esercito più numeroso dopo gli Usa. Contemporaneamente interagirà con la Russia e tenterà di delegittimare la stessa Nato acquistando armi russe.

    Ma il suo peso strategico lo giocherà tentando di spezzare la “mezzaluna sciita” (Iran e Siria) proprio diventando un partner strategico della Russia, Assad permettendo. Questo rafforzerà la sua posizione con le alleanze dei paesi sunniti (Arabia Saudita e Katar) e potrà far valere i suoi obiettivi nella guerra siriana acquisendo il controllo dei territori curdi. Quello che è certo è che Erdogan non accetterà più che la Turchia possa essere considerata solo un ponte con l’Occidente, ma cercherà di raggiungere una posizione al centro del mondo per far rinascere un nuovo impero ottomano.

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    L’articolo di Massimiliano Fanni Canelles è stato pubblicato originariamente su SocialNews con il titolo: Il nuovo Impero Ottomano

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