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    Elezioni USA, non chiamatelo più voto di protesta

    Il commento di Federico Solfrini e Riccardo Venturi per TPI dopo l'elezione alla Casa Bianca di Donald Trump

    Di TPI
    Pubblicato il 9 Nov. 2016 alle 19:27 Aggiornato il 12 Set. 2019 alle 02:25

    La nuova forma di conflitto
    sociale che caratterizza il Ventunesimo secolo non ha più il suo fine nella conquista
    dei diritti, ma nella difesa di “privilegi”. Nonostante i recenti revival
    concettuali, non si può nemmeno parlare di lotta
    di classe se questa nasce da chi vuole mantenere o addirittura introdurre
    nuovi privilegi e si oppone a chi vuole garantire diritti. La vera spaccatura che
    si è venuta a creare in seno alle società occidentali è, infatti, ideologica e
    non fattuale.

    L’elezione di Trump a presidente degli Stati Uniti, il referendum sulla Brexit e, in
    generale, i successi dei movimenti anti-sistema che trascendono i confini sono
    tutte manifestazioni dello stesso fenomeno, che affonda le sue radici in una
    paura ormai radicata nell’inconscio di una maggioranza perlopiù silenziosa, ma
    che trova espressione politica in una narrativa rassicurante.

    L’autoreferenzialità di tale
    racconto è in continua trasformazione, si alimenta attraverso una sorta di
    psicosi collettiva che trova il suo sostegno nella viralità dei nuovi mezzi di
    comunicazione, che catapultano questa maggioranza di persone in una realtà
    percepita per la prima volta così vicina, ma sempre meno controllabile.

    Questa
    narrativa si traduce a sua volta in una spaccatura ideologica e poi elettorale quando
    incontra la sua controparte, incarnata in coloro che, al contrario, in questa
    dimensione non solo ci si identificano, ma ci nascono. Nelle elezioni americane,
    questa dinamica si è verificata ancora una volta.

    Da un lato, si può osservare
    una maggioranza fondamentalmente reazionaria che ha votato in modo trasversale  Donald Trump. Dall’altro, c’è una minoranza
    estremamente eterogenea che ha trovato il suo sbocco naturale in Hillary
    Clinton.

    In questo senso, le statistiche elettorali sui votanti dell’8 novembre evidenziano un fatto significativo. Trump ha conquistato Stati diversissimi tra loro in differenti aree del paese, portando alle urne una categoria di elettori ben riconoscibile: in prevalenza uomini (53 per cento), bianchi (58 per cento), nella fascia d’età compresa tra i 40 e i 65 anni, tra i redditi medio alti (dai 50 mila dollari in su) e di area prevalentemente rurale (62 per cento). Tutti dati che non lascerebbero in alcun modo pensare ad un voto legato a circostanze prevalentemente economiche o perpetuamente emergenziali.

    Eppure, in un’America in
    netta ripresa economica, la retorica comune interpreta questo risultato come
    espressione di un voto di protesta. Una protesta che in effetti è in atto, ma
    che in realtà è legata a quell’insicurezza inconscia che porta alla continua
    ricerca di quella narrativa rassicurante strumentalizzata non solo da Trump, ma
    anche da quei partiti anti-sistema europei che, anch’essi, incentrano la
    propria campagna elettorale sugli stessi temi quali immigrazione, lavoro e
    generico antiglobalismo. Un messaggio semplice ed efficace, in grado di
    riportare queste fasce della popolazione ad un passato idealizzato, ma ancora
    vivo nelle aspettative del presente.

    * Commento di Federico Solfrini e Riccardo Venturi per TPI 

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