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    L’insostenibile stabilità dell’Egitto

    L'analisi di Paola Caridi e Azzurra Meringolo

    Di TPI
    Pubblicato il 24 Mar. 2016 alle 12:13 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 22:16

    C’è un convitato di pietra, a cui ogni tanto si accenna quando si parla dell’assassinio di Giulio Regeni. È una parola all’apparenza rassicurante, e allo stesso tempo saggia. Stabilità. È la stabilità dell’Egitto alla quale dobbiamo guardare con estrema attenzione, nel nostro delicato ruolo politico nel Mediterraneo. 

    È la stabilità dell’Egitto che ci proteggerà dall’attacco dell’autoproclamatosi “stato islamico”. È la stabilità del più importante Paese della costa settentrionale dell’Africa che dobbiamo proteggere, per tutte le ragioni politiche, economiche, strategiche che toccano l’Italia: la crisi libica, le migrazioni, il contenimento dell’integralismo di marca islamista.

    La stabilità è la nostra trincea e per mantenerla dobbiamo ingoiare bocconi amari. La Realpolitik è razionale, seria. La ricerca di verità e giustizia sul caso Regeni è carica di troppo idealismo. Che cosa intendiamo, però, per stabilità? Siamo sicuri, dal punto di vista concettuale e da quello storico, che la stabilità debba essere coniugata a un atteggiamento morbido verso le violazioni dei diritti umani e civili? Siamo sicuri che la stabilità si costruisca e si mantenga con il pugno duro, e con un sistema istituzionale e politico autoritario?

    La stabilità insostenibile dell’Egitto

    La recente storia egiziana ci mostra che non è così. Già in passato la stabilità del regime egiziano è stata erroneamente ritenuta sostenibile, dimenticandosi che sostenibilità e stabilità sono due concetti distinti, dove il primo è molto più ampio, profondo e lungimirante del secondo. 

    Durante l’epoca di Hosni Mubarak – decenni segnati da autoritarismo, repressione ed esclusione politica – l’Italia ha speso molte energie per sostenere la stabilità egiziana. Una stabilità molto cara anche in termini di diritti umani, il cui perseguimento ha spesso agito a danno della sostenibilità del regime, entrato infatti in crisi all’inizio del 2011.

    Quanti si sono affannati nel ricercare quella stabilità che rende il terreno fertile al business non lo hanno fatto avendo pensieri di lungo periodo. Hanno preferito accontentarsi di conservare il business as usual, ignorando tutti i segnali che mostravano che il popolo egiziano non era interamente rappresentato dai politici o dagli imprenditori autorizzati e sponsorizzati dal regime a fare affari con noi. 

    Oltre a questi c’erano quei cittadini ridotti allo stremo da anni in stato di sudditanza. Persone non solo escluse dalla vita politica, ma anche private dei loro diritti e dei più semplici servizi che garantiscono una vita dignitosa. Egiziani in un continuo stato di paura e terrore causato dall’apparato di sicurezza che servendosi di repressione e cooptazione ha tenuto sotto controllo non solo i Fratelli Musulmani – clandestini fino al 2011 e nuovamente dalla fine del 2013 – ma anche gli attivisti di sinistra e ogni voce stonata rispetto al coro ufficiale.

    Gruppi, questi ultimi, che riuscivano comunque a far venire a galla un certo malcontento sfociato in tentativi di manifestazioni o proteste sindacali brutalmente represse sul nascere, come hanno sempre denunciato le più attente Ong attive sul campo, e ignorate da un Occidente superficiale. 

    Una parte di mondo cieca anche ai più evidenti segnali di turbolenza messi a nudo, nel 2004, dalle manifestazioni di strada organizzate da Kifaya. Un movimento che ha avuto il merito di mettere in luce una montante insoddisfazione che metteva in pericolo la stabilità di facciata. Un’insoddisfazione condivisa da milioni di giovani egiziani disoccupati, umiliati e privati di dignità e diritti che impossibilitati a trovare una qualsiasi realizzazione hanno trovato infine il coraggio di abbattere la barriera della paura per rivendicare i diritti che gli erano stati sottratti. 

    La goccia che fece traboccare il vaso fu la morte di Khaled Said, un giovane attivista pestato a morte, nel giugno 2010, da due poliziotti all’uscita da un internet caffè. La sua tragica fine spinse i giovani a ribellarsi al dittatore di turno, facendo crollare la facciata di stabilità dietro la quale si barricava il regime.

    L’Europa nata sullo stato di diritto 

    Senza mettere in discussione il rapporto stretto tra stabilità e assenza di diritti, siamo sicuri che la Realpolitik protegga più i nostri interessi di quanto non li protegga una posizione chiara verso i diritti?

    A sorreggere la nostra tesi è una riflessione sulla storia europea. Sino al 1945, l’Europa è stata al centro di un Novecento percorso da due guerre mondiali, la fine dell’imperialismo classico, una crisi economica profondissima, due tra le peggiori ideologie razziste e almeno tre dittature, e la vergogna eterna della Shoah. 

    L’Europa della crisi dei diritti è stata una peste che ha infiammato tutto il mondo. Dopo la seconda guerra mondiale, la parte occidentale dell’Europa è risorta attraverso una stagione rivoluzionaria poggiata sulle costituzioni e sulla protezione dei diritti fondamentali: una stagione che ha avuto proprio nell’Italia e nella Germania i due esempi più interessanti.

    È una sintesi che avrebbe bisogno di una riflessione più complessa, certo. Parla, però, di una realtà incontrovertibile: la stabilità dell’Europa si è legata del tutto e in maniera indissolubile al sostegno degli Stati di diritto e all’affermazione dei diritti umani e civili. 

    Lo dimostrano le due instabilità degli scorsi decenni: la caduta del sistema dei satelliti dell’Unione sovietica, causata dall’assenza delle libertà, e la disgregazione della Jugoslavia, dissolta anche per il peso di una crisi della rappresentanza. A darci la prova del nove è l’attuale crisi dell’Europa, che trova proprio nell’indebolimento dei diritti il suo vulnus, nel modo in cui affronta le migrazioni.

    Rivoluzione della nostra politica mediterranea

    Ciò che applichiamo a all’Europa, va applicato – come chiedono le Convenzioni internazionali nate non casualmente dopo la seconda guerra mondiale – al resto del pianeta. A meno che non si voglia credere veramente alla follia che gli arabi non siano costituzionalmente portati alla democrazia, o credere a chi – tra coloro che detengono il potere nelle capitali arabe – afferma che ci sia ancora bisogno di decenni per portare la democrazia in Medio Oriente e Nord Africa.

    La stabilità araba è, per citare l’intellettuale libanese Samir Qassir, inversamente proporzionale alla “infelicità araba”. Solo la difesa dei diritti e una posizione ferma verso le autocrazie al potere e le controrivoluzioni in corso possono sostenere la stabilità.

    Si tratta di una rivoluzione necessaria nella nostra politica mediterranea che trova il suo primo terreno di prova proprio in Egitto. È la stessa storia recente egiziana, infatti, a dirci a gran voce che la stabilità al Cairo, da dove sono mesi che arrivano gli stessi segnali allarmanti che hanno anticipato lo scoppio della rivoluzione del 2011, non parla la lingua delle violazioni dei diritti.

    L’analisi è stata pubblicata da AffarInternazionali con il titolo “Se la realpolitik di oggi mina gli interessi di domani” e ripubblicata in accordo su TPI con il consenso delle autrici

    *Paola Caridi è analista e scrittrice, autrice di “Gerusalemme senza Dio. Ritratto di una città crudele”, Feltrinelli 2013. 

    *Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. 

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