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    La farsa di Obama sulla guerra al terrorismo

    In Medio Oriente l'ex presidente Usa ha scommesso sul fatto che non tutto si possa risolvere e che il prezzo della ‘non azione’ sia inferiore a quello dell’azione

    Di Alessandro Albanese Ginammi
    Pubblicato il 19 Mag. 2017 alle 10:44 Aggiornato il 12 Set. 2019 alle 01:08

    La storia della politica estera degli Stati Uniti può essere interpretata, in particolare a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, come un susseguirsi e alternarsi di diverse strategie, ciascuna delle quali fondata sulla rigorosa identificazione e correlazione di interessi da perseguire, minacce da fronteggiare e strumenti da dispiegare.

    “Containment” è stata la parola chiave negli anni del confronto bipolare con l’Unione Sovietica, ritornando poi in auge negli anni Novanta nel Golfo Persico (dual containment rivolto contro Iran e Iraq) e più di recente nei riguardi della Cina. Il regime change (o rollback) ha ispirato l’invasione dell’Iraq nel 2003, ma già negli anni Cinquanta del Ventesimo secolo aveva dettato le mosse dell’amministrazione Eisenhower in Guatemala e Iran.

    L’engagement, cioè l’idea di garantire gli obiettivi americani tramite l’estensione dell’interdipendenza economica, il rafforzamento delle istituzioni internazionali, l’allargamento dell’area della democrazia e il coinvolgimento anche dei paesi considerati più ‘scomodi’, alimentò il processo di distensione con l’Unione Sovietica negli anni della Guerra fredda, per poi tornare in voga negli anni Novanta con la politica dell’enlargement dell’amministrazione Clinton. Il retrenchment, la riduzione degli impegni internazionali e dei relativi costi militari fu il cuore della politica estera di Nixon degli anni Settanta e ha rappresentato il tratto fondamentale anche dell’amministrazione Obama.

    L’offshore balancing, ossia il mantenimento degli Stati Uniti in un ruolo di garante esterno di assetti regionali, tutelati in primo luogo dagli alleati degli americani, ha rappresentato la linea di continuità dell’approccio americano verso il Golfo Persico almeno fino all’inizio degli anni Ottanta, per poi essere rispolverato anche in tempi più recenti sia per il Medio Oriente sia per la regione dell’Asia pacifica. Infine, l’isolazionismo, cioè il rifiuto degli impegni e dei vincoli internazionali, ha caratterizzato la politica estera americana per gran parte della sua storia, almeno per quanto riguarda i rapporti con l’Europa, il Mediterraneo e l’Asia sud-occidentale, e ha sempre rappresentato una corrente profonda e radicata nel dibattito politico statunitense.

    Politica estera firmata Obama

    La politica estera americana degli ultimi otto anni è stata plasmata sulla dottrina Obama. Obama è stato un presidente realista e pragmatico, convinto che la difesa dei diritti umani e dei popoli contro i dittatori sia importante e vada perseguita, ma conscio che cambiare il mondo non sia possibile – non in otto anni – nemmeno se si è il presidente degli Stati Uniti.

    Nel 2008, l’eredità di George W. Bush era rappresentata da una crisi economica e finanziaria epocale e da una guerra al terrorismo che aveva compromesso le relazioni degli Stati Uniti con buona parte del mondo islamico.

    In Medio Oriente Obama ha scommesso sul fatto che non tutto si possa risolvere e che il prezzo della ‘non azione’ sia comunque più basso di quello dell’azione. A partire dal 2011, però, alcune questioni di grande rilievo hanno messo in crisi la strategia di Obama richiedendo un nuovo approccio contro il terrorismo. Primo, le rivolte arabe contro i regimi dittatoriali in Tunisia, Libia, Egitto, Siria e Yemen hanno sconvolto il Medio Oriente e il Nord Africa, alimentando il caos in tutta la regione e lasciando spazio di manovra per il radicamento del terrorismo, soprattutto in Libia, Siria e Yemen. Secondo, l’avanzata delle organizzazioni terroristiche nella regione ha provocato l’aumento della frequenza di attentati in tutto il mondo, mettendo a dura prova le relazioni tra gli Stati Uniti e i suoi più importanti alleati regionali, principali rappresentanti del mondo islamico sunnita, come Arabia Saudita e Turchia.

    I rapporti “complicati” con l’Arabia Saudita

    Il problema principale nella guerra di Obama al terrorismo è stato il rapporto con Riyad. “I sauditi sono vostri amici?” ha chiesto il primo ministro australiano Malcolm Turnbull a Obama, che ha risposto: “è complicato”. In otto anni di presidenza il premio Nobel per la pace ha venduto circa cento miliardi di dollari di armi all’Arabia Saudita. I sauditi hanno sostenuto la campagna elettorale di Hillary Clinton mentre in Siria finanziavano la guerra per procura per abbattere il presidente Bashar al-Assad e in Yemen combattevano contro i ribelli sciiti houthi, bombardando la capitale Sana’a e massacrando la popolazione civile.

    “L’Iraq ci ha insegnato che non è con le invasioni che risolvi i problemi, ci vuole cautela e multilateralismo”, ha detto Obama, ma in Siria gli Stati Uniti – proprio per volere della ex segretario di Stato Hillary Clinton – hanno scelto di agire sostenendo il progetto saudita per abbattere il presidente Bashar al-Assad in chiave antiraniana e antirussa. In questo caso la guerra al terrorismo non è sembrata una priorità per Obama.

    Stati Uniti, Turchia e la questione curda

    Il secondo problema per gli Stati Uniti è stato la relazione con la Turchia. Obama ha accettato senza dire una parola che il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, oltre a sostenere il progetto saudita contro Assad, continuasse a bombardare i curdi, che combattevano in prima linea le organizzazioni terroristiche in Siria. Gli Stati Uniti hanno provato a fermare l’avanzata delle organizzazioni terroristiche sostenendo le forze curde ed effettuando massicci bombardamenti nella regione, mentre per la Turchia l’obiettivo era contenere i curdi e sostenere le forze ribelli in Siria.

    La guerra al terrorismo di Obama si è intrecciata alla guerra civile siriana mettendo in evidenza lo scarso interesse da parte degli alleati di Washington nella regione a combattere contro le organizzazioni terroristiche. Il rapporto con gli alleati è stato spesso faticoso e imbarazzante per Obama, non solo con gli autocrati e i regimi dittatoriali – come Ankara e Riyad – ma anche con i francesi, gli inglesi e i russi. Tanto la strategia della ‘non azione’ quanto le avventate e confusionarie azioni militari nella regione hanno sempre prodotto risultati insoddisfacenti. D’altronde Obama ha sempre sostenuto, durante la sua presidenza, che il terrorismo rappresentasse una minaccia enorme, ma che il cambiamento climatico lo fosse molto di più.

    Una guerra fallita

    Alla luce di quanto descritto si può affermare che il bilancio dell’amministrazione Obama in merito alla guerra al terrorismo sia negativo. Tra il 2008 e il 2016 sono aumentati vertiginosamente il numero di attentati suicidi, il numero di morti per terrorismo e la paura di nuovi attacchi in tutto il mondo. Solo negli ultimi due anni l’Isis ha realizzato più di trenta attentati colpendo obiettivi occidentali e uccidendo circa 650 persone. Obama non è riuscito a districare gli Stati Uniti dalle guerre di Bush in Afghanistan e Iraq, anzi, in entrambi gli scenari la situazione è nettamente peggiorata.

    Sebbene Obama abbia portato a termine l’operazione per l’uccisione Bin Laden, con un apparente indebolimento di al-Qaeda, l’Isis rende oggi più che mai la guerra al terrorismo lunga e difficoltosa. Nel giugno del 2015, lo stesso Obama dichiarava, con un imbarazzante passo falso, che la sua amministrazione non aveva “ancora una strategia completa” contro il Califfato.

    Tra la politica estera di Bush e quella di Obama si registrano, sul fronte della lotta al terrorismo, più elementi di continuità che di rottura. Il tentativo di Obama di disimpegnarsi progressivamente dal Medio Oriente e di “non fare sciocchezze” non ha avuto successo: gli Stati Uniti si sono impegnati in modo confuso e hanno fatto alcuni errori di calcolo e valutazione, come in Siria, dove si sono scontrati differenti gruppi, alcuni armati dalla Cia e altri dal Pentagono. Il caos ha favorito la guerra settaria in numerosi contesti della regione, lasciando spazio a un confronto per procura tra l’Iran e l’Arabia Saudita.

    Stephen M. Walt, docente di Relazioni internazionali a Harvard, fa notare che la politica estera americana dalla fine del sistema bipolare a oggi, non è mai riuscita a ottenere ciò che voleva in Medio Oriente. Dall’amministrazione Clinton, passando per Bush e terminando con Obama, il minimo comune denominatore della politica estera americana nella regione è stato “non riuscire a mantenere le promesse fatte”. Gli attentati a Parigi nel novembre del 2015 e quelli di Bruxelles del marzo 2016 hanno riaperto tragicamente il dibattito sul terrorismo e sulla sicurezza anche in Europa.

    Da dove partire per sconfiggere il terrorismo

    Stati Uniti e Unione europea non sembrano avere una strategia comune, forse perché il terrorismo non riesce a essere compreso in profondità prima ancora di essere combattuto. Appare più semplice capire innanzitutto cosa non fare, ovvero non reagire in modo istintivo, cioè non dare all’Isis esattamente ciò che vuole: il caos. Il mondo islamico sta vivendo una rivoluzione interna senza precedenti, paragonabile per alcuni aspetti a ciò che in Europa accadde con la riforma protestante – ovvero una lotta per il potere interna al mondo musulmano.

    Il mondo occidentale, ai margini geografici di questa rivoluzione, deve prima di tutto comprendere di non esserne il protagonista. La storia europea, in particolare quella dei Balcani, potrebbe offrire una lezione utile alla politica estera americana, che non potrà più sottovalutare le differenze etniche, religiose e culturali presenti in Medio Oriente.

    Il 7 maggio 2017, il principe della corona saudita e il ministro dell’Interno Mohammed bin Nayef hanno accolto a Jeddah il segretario americano per la sicurezza interna John Kelly e Thomas Bossert, consigliere di Trump per il terrorismo, per discutere questioni di reciproco interesse per la sicurezza e la lotta al terrorismo. Lo US-Islamic-Arab Summit si terrà a Riyad il prossimo 21 maggio, in presenza del presidente Trump.

    In attesa di conoscere la prossima mossa di Trump una cosa comunque è certa: democratici o repubblicani che siano, i presidenti americani degli ultimi decenni sono sempre stati d’accordo su una cosa, pecunia (saudita) non olet.

    L’analisi prende a riferimento il volume “La dottrina Obama. La politica estera americana dalla crisi economica alla presidenza Trump”, a cura di Paolo Wulzer, Textus, 2017.

    Leggi anche: Perché Trump ha deciso di visitare l’Arabia Saudita nel suo primo viaggio oltreoceano

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