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    L’incontro tra una curda e un arabo nella Siria in guerra

    L'inusuale incontro tra una curda e un arabo a Damasco nasconde la determinazione di centinaia di attivisti siriani di ricomporre le "Sirie" divise dalla guerra

    Di Lorenzo Trombetta con Good Morning Syria
    Pubblicato il 14 Feb. 2017 alle 17:04 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 17:54

    Lappuntamento è alla stazione dei taxi alla periferia di Damasco. Quello tra Sherin e Jawad non è un incontro qualunque. La Siria è in guerra. Lacerata da divisioni tra comunità che appaiono sempre più l’una contro l’altra. Sherin è curda. Jawad è arabo. Entrambi sono musulmani e sunniti, ma lo sono in modo molto differente l’uno dall’altro.

    Lei proviene dalla zona nordorientale del paese, di fatto autonoma da Damasco, a stragrande maggioranza curda e musulmana ma caratterizzata da uno spiccato laicismo. Lui è della regione sud-occidentale, al confine con il Golan, occupato da Israele. È figlio del capo di uno dei clan più influenti della zona, esposta da decenni al radicalismo islamico, che strizza l’occhio al jihadismo.

    Più di ottocento chilometri di distanza in linea d’aria separano i luoghi di nascita di Sherin e Jawad. Ma distanti anni luce sembrano oggi le loro rispettive comunità di appartenenza.

    Prima della guerra, serviva un giorno di viaggio in pullman dalla zona di Qunaytra, da cui proviene Jawad, al distretto di Malikiyah, da cui proviene Sherin. Dal fianco orientale del Golan, passando per Damasco, Homs e la steppa desertica. Lasciandosi sulla destra l’oasi e le antiche rovine di Palmira. Risalendo e, poi, varcando l’Eufrate. Fino a raggiungere quella che una volta era la Jazira, e ora si chiama provincia di Hasakah. Ricca di acqua, ma soprattutto di petrolio.

    Oggi quel viaggio non è più possibile per la gran parte dei siriani. Il paese è diviso in zone controllate militarmente da attori diversi, rivali sulla carta ma quasi sempre soci nei lucrosi affari dell’economia di guerra. Sherin e Jawad sono come due puntini che corrono su traiettorie che rischiano di non incontrarsi mai. Eppure, a quella stazione di taxi, quando anche l’ultima vettura ha lasciato il parcheggio, Jawad si affaccia in attesa di avvistare l’auto con a bordo Sherin.

    Non è un incontro romantico. Non sono due novelli Romeo e Giulietta che sperano di baciarsi sotto qualche balcone devastato dalle bombe.

    Jawad è un avvocato giovane, rispettato dalla sua comunità, da decenni sparsa tra la periferia di Damasco e il Golan. Sherin si è laureata in scienze sociali e deve ancora decidere cosa vuole fare da grande.

    È combattuta tra il giornalismo e l’impegno politico in una zona chiusa a sud dal sedicente Stato islamico, a nord dall’ostile Turchia e a est dall’Iraq, non così fraterno. I due giovani siriani non si incontrano però per la prima volta tra le pozzanghere del parcheggio di taxi della periferia di Damasco.

    Si erano conosciuti nel Libano confinante con la Siria. In uno degli innumerevoli incontri tra esponenti della società civile siriana in cerca di identità. E che non dimentica il movimento di proteste anti governative non violente scoppiato nel 2011. Si erano parlati per la prima volta sulla terrazza assolata di un albergo di montagna. Lì si teneva un seminario dedicato a come gli attivisti potessero coordinare i loro sforzi nonostante la guerra e le divisioni interne.

    Jawad beveva il caffè sotto il sole. Sherin lo aveva sentito parlare nella riunione plenaria a proposito delle difficoltà degli attivisti del Golan di operare in un contesto dove gruppi vicini all’Isis operavano indisturbati. Era curiosa di saperne di più. Ma la sorpresa fu enorme per Sherin quando capì che Jawad non era affatto critico nei confronti dell’Isis. O almeno così lui voleva far sembrare, almeno per attirare l’attenzione.

    “Daesh sbaglia…”, disse Jawad, usando l’acronimo dispregiativo in arabo per lo Stato islamico in Iraq e Siria. “Daesh sbaglia perché i suoi miliziani non tagliano le teste come è prescritto dal Corano. Usano le lame sbagliate e il taglio non è fatto in maniera corretta”. Sherin era rimasta bocca aperta. E Jawad le strizzò gli occhi, facendo capire che la sua era solo una provocazione. Costruita però non a caso, bensì a forza di ascoltare quello che molti suoi coetanei del Golan dicevano dell’Isis.

    Jawad affermava di “avere molti amici tra i miliziani di Daesh”. Su questo non mentiva. Trapiantato a Damasco ma radicato nelle campagne del Golan, conosceva da vicino l’ambiente rurale e depresso che aveva cullato il jihadismo. Lo toccava con mano ogni volta che tornava a trovare i genitori e il resto della famiglia. Come avvocato e attivista della società civile, Jawad aveva dunque un profilo fuori dal comune. E Sherin se ne accorse subito su quella terrazza assolata del Monte Libano.

    Da quel caffè e da quel primo incontro sono passati due anni. Sherin si è laureata e Jawad ha aperto uno studio tutto suo a Damasco. La guerra in Siria si è avvitata attorno a un intreccio di interessi locali, regionali e internazionali. Il cumulo di macerie, fisiche e spirituali, è sempre più alto e getta su tutto un’ombra sinistra. È dunque uno squarcio di luce e colore quel loro abbraccio che si consuma nella stazione di taxi alla periferia di Damasco.

    Jawad l’accoglie con una battuta. Lei scoppia a ridere. È buio per strada. Jawad spiega quello che Sherin conosce bene. Anche da lei l’elettricità è razionata e arriva solo per poche ore al giorno. Salgono le scale.

    Ad attenderli c’è Fadi. Amico in comune, cristiano, anche lui avvocato e anche lui attivista. Fadi vive con i genitori e la tavola del soggiorno è imbandita per una cena davvero fuori dal comune. Il padre di Fadi è un ex dissidente, figlio di una generazione che tra gli anni Settanta e Ottanta ha assaggiato più volte le torture inflitte nelle carceri politiche del regime.

    Il padre di Fadi ha le lacrime agli occhi. Non crede che suo figlio e i suoi amici siano riusciti in quello in cui lui e i suoi “compagni di lotta” non sono riusciti a fare per almeno un decennio: riunirsi, nonostante le differenze comunitarie e ideologiche, attorno allo stesso tavolo per parlare di cittadinanza e rispetto dei diritti. Per cercare percorsi reali, non retorici, per ricucire le ferite tra le genti di Siria.

    Il padre di Fadi aveva militato nell’ala clandestina del partito comunista. Compagni e compagne di zone diverse si incontravano senza problemi. Mangiavano e, a volte, dormivano assieme. Ma quei compagni – ripensa il padre Fadi – la pensavano tutti allo stesso modo. Erano accomunati da un’unica ideologia politica. Loro, “i compagni”, non si sarebbero seduti a discutere, tantomeno a mangiare, con i loro rivali, magari con gli islamisti.

    La comunità di Jawad considera i curdi apostati e dei separatisti. Apostati perché “non veri musulmani”. Separatisti perché “vogliono smembrare la Siria” e creare “una nazione curda separata dagli arabi”. Jawad non è ‘lo Stato islamico’. E Sherin non è “separatista”. Il padre di Fadi li abbraccia. E per tutta la cena si gode uno spettacolo che sembra il manifesto di una Siria ancora possibile.

    Ma il quadro va oltre l’esotismo facile di chi mette il Corano accanto al Vangelo, la Mezzaluna sopra la Croce, e scende in strada millantando una presunta uguaglianza tra le fedi e una volontà di “dialogo inter-religioso”. Fadi, Sherin e Jawad devono discutere di come portare avanti un progetto in tre aree diverse della Siria per elaborare dei curricula scolastici comuni, nonostante le pressioni delle diverse autorità politico-militari. “È una scommessa per il futuro”, dice Jawad. “Perché i siriani non crescano in nome della diffidenza verso l’altro”.

    Il mattino seguente Sherin e Jawad tornano alla stazione dei taxi. Il frastuono copre le frasi di commiato che Jawad riserva a Sherin, diretta in aeroporto. Da Damasco volerà in aereo nella zona curda. Il viaggio in pullman non è più possibile: troppe milizie, troppe trincee ancora invalicabili. Quelle tra Jawad e Sherin, e tra tanti altri attivisti siriani, sono invece crollate. Si spera per sempre.

    *Di Lorenzo Trombetta, corrispondente Ansa per il Medio Oriente basato a Beirut, con Good Morning Syria

    — LEGGI ANCHE: Lettere da Aleppo. La società civile che resiste alla catastrofe 

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