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    La storia della donna che cancellò dal braccio il numero tatuato ad Auschwitz

    Judith Reisz e il nipote Alejandro Horvat

    Judith aveva soltanto 15 anni quando venne deportata nel campo di concentramento

    Di Francesca Moriero
    Pubblicato il 27 Gen. 2018 alle 16:29 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 19:05

    “Ogni prigioniero sogna di morire in libertà. Non importa che la sua prigionia sia avvenuta qualche decennio fa: le impronte non vengono cancellate. Per Judith scegliere dove morire significava essere liberi”.

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    Con queste parole Alejandro Horvat, nato a Buenos Aires il 22 luglio 1991, ricorda sua nonna, sopravvissuta all’Olocausto, riportando alcune testimonianze private.

    Judith Reisz nacque il 29 novembre del 1929 in Slovacchia. Poco dopo la sua nascita, i genitori decisero di spostarsi a Budapest.

    La famiglia gestiva una pensione chiamata “Casino Panzio”.

    Judith proveniva da una famiglia della classe media in un periodo in cui la borghesia ebraica prosperava ed era legata al regime aristocratico che gestiva il paese.

    Quando i nazisti irruppero nella sua casa, Judith aveva solo 15 anni.

    “I nazisti trasferirono i detenuti nei treni merci. Mia nonna, premuta contro le pareti del treno affollato, guardò attraverso le fessure. Molti prigionieri mostravano sul volto la certezza di sapere quale fosse il loro destino. Avevano occhi opachi e immobili.” racconta Alejandro.

    “Judith si rifugiò tra le braccia di suo padre, un posto sicuro e invalicabile. All’arrivo ad Auschwitz, un uomo le tese la sua mano per aiutarla a scendere. E la fissò, tremando. Con urgenza le bisbigliò: “Se ti chiedono qualcosa, tu rispondi che hai 18 anni”.

    Gli uomini da una parte e le donne dall’altra.

    La figura di suo padre svanì per sempre quando i nazisti ordinarono i ranghi e iniziarono la selezione.

    Judith Reisz con i genitori

    Judith rimase con sua madre e venne trasferita nella stanza del dottor Josef Mengele, soprannominato poi l'”angelo della morte”.

    Le vennero chiesti immediatamente nome ed età.

    “Judith, 18 anni”, rispose. Così riuscì a evitare la morte immediata.

    “Quando andavo a pranzo da mia nonna i temi della conversazione erano quelli di sempre: politica, gossip e tragedie della vita quotidiana. Nel primo non credeva, il secondo non le interessava, del terzo non amava parlare. Ricordo che un giorno mostrandomi il polso mi chiese ‘questo per te è un problema?’. Parlava del tatuaggio. Le tragedie, insomma, erano altre”, racconta il nipote.

    “Ricordo la cicatrice che aveva sul polso, ma nessuno in famiglia ricorda il numero di matricola che le tatuarono ad Auschwitz perché mia nonna scelse di cancellarlo per non mostrare ai suoi nipoti il marchio dell’orrore”.

    Per rimuovere un tatuaggio viene utilizzato un laser che brucia la pelle. L’inchiostro, quindi viene sostituito da una semplice bruciatura.

    “La cicatrice non cancella il ricordo. Quei centimetri di pelle ruvida segnavano la fine di una storia e l’inizio di un’altra. Non significa dimenticare ma andare avanti. Quando è nata Ana, sua nipote, mia nonna la teneva tra le braccia. In loro non c’era nulla da nascondere. Con orgoglio la guardò negli occhi e disse: “Ciao bella. Sono Judith, tua nonna”.

    Ad Auschwitz i prigionieri avevano tre opzioni ma non potevano però sceglierne nessuna: la costruzione del campo, i forni crematori e la cucina.

    I primi due erano condanne a morte e l’ultimo un luogo di privilegio.

    “Mia nonna e sua madre sbucciavano le patate in cucina. Ogni boccone extra che mettevano in bocca, rischiavano la vita. Erano soliti tagliare la buccia spessa e buttarla fuori dalla finestra in modo che altri potessero mangiarla.”

    Gli alleati e l’armata rossa avanzarono sulle truppe tedesche. I nazisti da lì a poco trasferirono i prigionieri a piedi in quella che fu chiamata “La marcia della morte”.

    Con temperature sotto zero, nell’inverno tra il 1944 e il 1945, decine di migliaia di ebrei, ma anche prigionieri di guerra, civili e omosessuali, camminarono senza cibo né acqua e praticamente nudi, verso altri lager all’interno della Germania.

    Un esercito immobile, sterile. Dei veri e propri “scheletri in pigiama”.

    Terminata la guerra, Judith e la madre tornarono a Budapest che ormai era stata devastata.

    La loro casa era stata trasformata in uffici governativi, così si spostarono a Samorin dove una zia aveva nascosto loro del denaro che poi permise di pianificare la loro uscita dall’Europa.

    Prima della guerra, infatti, il padre di Judith aveva intenzione di andare a vivere in Argentina, dove aveva diverse conoscenze.

    Uno di loro, Guillermo, conosceva amici incaricati di portare persone senza documenti dall’Europa all’Argentina.

    Così Judith e la madre si misero in viaggio fino a giungere a Salisburgo. Per andare da Budapest a Salisburgo bisognava attraversare la zona russa, nordamericana e inglese, tutto, senza documenti.

    Quando arrivarono in Italia, un uomo li aiutò ad attraversare il confine in cambio di denaro.

    Finalmente arrivarono a Genova. Era la prima volta che Judith vedeva il mare.

    Judith arrivò al porto di Buenos Aires il 6 dicembre 1946 dopo tre settimane di viaggio.

    Poco tempo dopo, incontrò Andrés dal quale ebbe due figli: Pedro e Marta.

    Lì diventò insegnante e campionessa di bridge.

    Judith è deceduta il 3 dicembre 2014 all’età di 85 anni.

    Questa donna ha dedicato gran parte della sua vita a indire conferenze sull’Olocausto. Per lei qualsiasi tipo di discriminazione apre la strada a un nuovo Auschwitz.

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