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    Tecnologia vs. Democrazia: il doppio gioco delle Big Tech sfida l’ordine internazionale

    Credit: Reuters

    Accrescono il potere economico e militare di Usa e Cina, plasmeranno la prossima rivoluzione industriale e il futuro del lavoro. Ma se gli Stati-nazione non terranno sotto controllo le grandi piattaforme e i colossi del web, rischiano di essere sostituiti da una tecno-élite globale

    Di Almerico Bartoli
    Pubblicato il 25 Dic. 2022 alle 07:10

    Per quasi 400 anni gli Stati-nazione hanno occupato un ruolo primario negli affari globali, ma le cose stanno cambiando. Ora un gruppo di grandi aziende tecnologiche – Amazon, Apple, Facebook, Google e Twitter negli Usa; Alibaba, ByteDance e Tencent in Cina – si contendono l’arena geopolitica, esercitando la propria egemonia su numerosi aspetti della società, dell’economia e della sicurezza nazionale. Questi attori non statali hanno un’influenza enorme sulle tecnologie e i servizi che daranno forma alla prossima rivoluzione industriale, determineranno la proiezione del potere economico e militare dei singoli Paesi, plasmeranno il futuro del lavoro e definiranno i nuovi contratti sociali.

    Una minaccia politica
    Per quanto utili possano risultare queste tecnologie, la predominanza di queste grandi imprese dovrebbe far suonare dei campanelli d’allarme – non solo per l’immenso potere economico concentrato nelle loro mani, ma anche per il controllo che esercitano sulla comunicazione, sulla diffusione delle informazioni e le azioni di coordinamento politico, ponendo una minaccia senza precedenti alle democrazie.

    Oggi appena quattro società – Alibaba, Amazon, Google e Microsoft – soddisfano la domanda globale di servizi cloud, l’infrastruttura digitale che ha consentito alle persone di continuare a lavorare e ai bambini di seguire le lezioni durante la pandemia di Covid-19. La futura competitività delle industrie tradizionali dipenderà da come sapranno cogliere le opportunità offerte dalle reti 5G, le intelligenze artificiali (IA) e da un utilizzo diffuso dell’Internet delle Cose. Se le società internet dipendono in gran parte dalle infrastrutture cloud di queste aziende, presto varrà lo stesso anche per automobili, linee d’assemblaggio e città intere.

    Come sostiene il politologo statunitense Ian Bremmer, è ora di cominciare a pensare alle principali aziende tecnologiche come a dei veri e propri Stati-nazione. Queste aziende esercitano una forma di sovranità in un campo in rapida espansione, ben al di là del raggio di azione delle autorità di regolamentazione: lo spazio digitale. Contribuiscono alla competitività geopolitica – pur avendo un potere d’azione limitato – mantengono relazioni internazionali e devono rispondere ad assemblee costitutive – composte da azionisti, impiegati, utenti e inserzionisti.

    Chi stabilisce le regole
    Per capire come si svilupperà la lotta per il dominio geopolitico tra governi e Big Tech, è necessario comprendere la natura del loro potere. Gli strumenti a loro disposizione sono insostituibili negli affari globali, per questo i governi faticano a controllarle. Pur non trattandosi della prima volta che delle aziende private svolgono un ruolo predominante nella sfera geopolitica – ricordiamo la Compagnia britannica delle Indie Orientali – i giganti di allora non potrebbero competere con la presenza globale pervasiva delle società tecnologiche di oggi. Come sottolinea Bremmer, una cosa è esercitare il potere tramite intermediari politici in una stanza fumosa, un’altra è influenzare direttamente i mezzi di sussistenza, le relazioni, la sicurezza e perfino le associazioni mentali di miliardi di persone.

    Un altro aspetto che differenzia le Big Tech dai giganti del passato è la loro crescente capacità di fornire una gamma completa di prodotti nel mondo digitale e in quello reale necessari a gestire la società moderna. Se le aziende tecnologiche si comportano sempre più come attori geopolitici, Elon Musk, a.d. di Tesla e Space X, è l’esempio più palese, con la sua ambizione di reinventare i mezzi di trasporto, collegare i computer ai nostri cervelli e rendere l’umanità una specie multiplanetaria colonizzando Marte, mirando a dominare l’orbita terrestre bassa e creare un futuro dove le imprese tecnologiche aiuteranno la società a evolversi oltre il concetto di Stato-nazione.

    Secondo Bremmer però, la dissoluzione degli Stati per mano delle Big Tech non è inevitabile. I governi hanno intrapreso diverse misure per domare la ribelle sfera digitale: nel 2020 il governo cinese ha sanzionato con una multa record da 2,5 miliardi di euro AliBaba e Ant Group, facendo saltare quella che sarebbe stata l’offerta pubblica iniziale più alta al mondo; i tentativi dell’Ue di regolamentare l’uso dei dati personali, le IA e le aziende tecnologiche troppo ingombranti; le numerose azioni del Congresso e della Federal Trade Commission negli Usa; o le pressioni continue dell’India sulle società di social media straniere – l’industria tecnologica ha subìto diversi contraccolpi sul piano politico e normativo.

    Aristocrazia digitale
    Una volta raggiunti centinaia di migliaia di utenti, società come Amazon o Google possono passare a mercati completamente nuovi e battere aziende già consolidate a cui mancano simili conoscenze. Più un’azienda tecnologica si espande, più diventa utile ai suoi utenti, creando un ciclo di retroazione positiva – il cosiddetto “network effect” – che porta una singola società a dominare il mercato. A differenza delle aziende tradizionali, le imprese nello spazio digitale non competono solo per una fetta di mercato ma per il mercato stesso. Inoltre, piattaforme come Amazon, Google e Facebook, posseggono informazioni sulle vite degli individui che nessun monopolista ha mai avuto in precedenza. Conoscono i nostri amici e i nostri familiari, quanto guadagniamo e cosa possediamo, e molti dei dettagli più intimi delle nostre vite. Cosa accadrebbe se il dirigente corrotto di una grande piattaforma volesse sfruttare informazioni imbarazzanti per forzare la mano di un dirigente pubblico?

    Per il celebre critico, saggista e accademico statunitense Francis Fukuyama, il potere economico e politico concentrato nelle piattaforme digitali è come una pistola carica appoggiata su un tavolo. Al momento, è improbabile che le persone sedute dall’altra parte del tavolo prendano la pistola in mano e tirino il grilletto. Tuttavia per la democrazia, il problema è se sia saggio lasciare lì l’arma, dove qualcuno con peggiori intenzioni potrebbe passare e raccoglierla. Nessuna democrazia liberale può dirsi a suo agio nell’affidare un enorme potere politico concentrato a degli individui facendo affidamento solo sulle loro buone intenzioni.

    Gli Stati dispongono di diversi metodi per tenere sotto controllo il potere delle piattaforme digitali: promuovere una maggiore competizione, rafforzare le normative sulla privacy, incentivare la portabilità dei dati – come la General Data Protection Regulation (Gdpr), la direttiva Ue entrata in vigore nel 2018 – fino al middleware, una serie software che fungono da intermediari fra strutture e programmi informatici, ritenuto da molti oggi la soluzione più efficace.

    Se vivremo in un mondo dove l’era del dominio dello Stato-nazione giungerà alla sua fine, sostituito da una tecno-elite che si farà carico della responsabilità di offrire i beni pubblici forniti un tempo dai governi, dipenderà in gran parte dalla capacità di analisti, politici e del pubblico di capire a fondo i tratti competitivi che consentono a questi nuovi attori geopolitici di esercitare il loro potere, perché saranno questi fattori in gioco tra loro a definire la vita economica, sociale e politica del XXI secolo.

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