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    Cosa fare dopo gli attentati di Parigi?

    Il commento di Giorgio Ferrari, inviato ed editorialista di Avvenire

    Di TPI
    Pubblicato il 15 Nov. 2015 alle 15:54 Aggiornato il 11 Set. 2019 alle 01:32

    “Che fare?”, ci siamo domandati ieri, sapendo che una risposta univoca non esiste. La guerra contro l’Isis, già complicata nel teatro siriano, iracheno e libico, è ancor più difficile da combattere sul fronte interno, dove alcune migliaia di simpatizzanti del Califfato sono pronti o in procinto di compiere nuovi attentati in Europa.

    L’opinione pubblica stessa tende a dividersi. Da un lato – in Francia, ma non soltanto – un pessimismo ereditato tra gli altri da Houellebecq – autore di Soumission – e da Finkielkraut (L’identité malheureuse), secondo i quali la frattura identitaria dell’Europa, il fallimento del multiculturalismo, l’emarginazione nelle banlieue di milioni di islamici di seconda e terza generazione accomunati da un sordo e dilagante rancore nei confronti dell’Occidente e di molti dei suoi disvalori conducono inevitabilmente a una resa senza condizioni (o quasi) nei confronti dell’Islam cosiddetto moderato, l’unica scappatoia forse perché non vi trionfi quello più radicale.

    Dall’altro lato c’è la reazione viscerale a un terrorismo che si percepisce come difficilmente arginabile: la guerra in casa propria condotta dal jihadista della porta accanto che suscita i peggiori pensieri e scatena pericolosissime dinamiche portando acqua a tutti i mulini del radicalismo euroscettico, xenofobo e razzista.

    Focolai e falò non di second’ordine crepitano già in molte contrade europee, dai neonazisti dello Jobbik nell’Ungheria di Orban al Front National di Marine Le Pen in Francia, passando per Alba Dorata in Grecia, per l’Ukip del britannico Nigel Farage, e per tutte quelle formazioni xenofobe e conservatrici che hanno conquistato consenso e seggi in parlamento in Olanda, Germania, Finlandia, Norvegia, Svezia, Danimarca, Repubblica Ceca e di recente anche in Polonia.

    Il Leitmotiv di tutti i lepenismi è stato la grande ondata migratoria di quest’anno, malamente condotta e ancor peggio gestita da un’Europa teatralmente divisa e occupata soltanto con meschini conti sul proprio pallottoliere, che ora avrà facile gioco per tutti i leader xenofobi nell’additare all’inerzia dei governi e al flusso incontrollato di profughi provenienti dal Medio Oriente – e soprattutto dalla Siria – la causa principale dell’esistenza del “nemico in casa”.

    Ma non saranno né le identità frantumate né le opposte visioni di fronte a un fenomeno temibile che genera profonda insicurezza a risolvere concretamente il problema. L’unico modo per condurre la guerra contro l’Isis è quello di considerarla per quello che essa è: una guerra, appunto. E tutte le guerre, comprese quelle contemporanee che hanno aspetti asimmetrici e dinamiche non convenzionali, alla fine si assomigliano e richiedono due ingredienti finora non utilizzati dalle coalizioni e dalle singole nazioni in campo: il riconoscimento dell’avversario e soprattutto l’opzione “boots on the ground”, per il momento accuratamente rimandata e svolta per procura utilizzando fazioni e milizie spesso in lotta fra loro.

    Ma l’Europa, il mondo occidentale, gli instabili alleati russi, iraniani, sauditi sono pronti a una guerra sul campo? La domanda al momento è senza risposta, troppi interessi divergenti divaricano le posizioni dei grandi attori presenti nel teatro mediorientale, a cominciare dal fatto che alcuni sostengono apertamente la jihad e altri la combattono.

    Difficile coniugare le mire dei sauditi con quelle di Teheran e con quelle di Ankara, così com’è stato finora impensabile conciliare la strategia filo-siriana di Vladimir Putin con quella anti-siriana di Obama. In questo caos il Califfato, che pure ha subito perdite rilevanti grazie alle incursioni aeree, ha sicuramente buon gioco. Anche perché – a nostra notizia – finora nessuno ha compiuto passi ufficiali per avviare un canale di comunicazione con l’Isis. Con cui, inevitabilmente, bisognerà trattare.

    “Che fare?”, si chiedono tutti. Una guerra? Una resa? Cambiare le nostre abitudini, rinunciare alle libertà democratiche per un pugno di fanatici lucidamente guidati dagli strateghi di questa guerra iniziata da tempo e finora mai apertamente riconosciuta? Grandi mutamenti, comunque vadano le cose, sono davanti a noi. Insieme a grandi incognite. Con una sola certezza: sarà una lunga transizione, i cui effetti si allungheranno nel tempo.

    “Viviamo in un’epoca in cui piangiamo le vittime di un nuovo tipo di guerra”, ha detto il presidente della Repubblica federale tedesca Joachim Gauck. “Vittime di terroristi che in nome di un fondamentalismo islamista chiamano alla lotta contro la democrazia, i valori universali e i musulmani che non seguono la loro ideologia barbara. Coloro che commettono questi atti o li giustificano devono sapere che la comunità dei democratici è più forte dell’internazionale dell’odio”.

    Sono forse le parole più limpide che abbiamo sentito pronunciare in queste ore. E ad esse restiamo saldamente ancorati.

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