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    Il commovente appello della moglie del medico condannato a morte in Iran che non vi lascerà indifferenti

    La Corte suprema iraniana ha confermato la condanna a morte per Ahmadreza Djalali. Secondo le autorità iraniane, l’uomo avrebbe collaborato con stati considerati nemici da Teheran, come Israele e Arabia Saudita

    Di Lara Tomasetta
    Pubblicato il 16 Dic. 2017 alle 13:13 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 17:58

    Nell’aprile del 2016, Ahmadreza Djalali aveva deciso di recarsi nel suo paese natale, l’Iran, per far visita alla famiglia d’origine. Aveva colto quell’occasione anche per tenere alcune lezioni presso un’università di Teheran.

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    Da allora il medico e ricercatore non ha più potuto lasciare l’Iran e fare rientro in Europa. L’uomo aveva collaborato negli ultimi anni anche con il centro di ricerca di medicina dei disastri dell’Università del Piemonte Orientale.

    Ahmadreza è stato arrestato dalle autorità iraniane e attualmente si trova rinchiuso nel carcere di Evin, a nord della capitale iraniana Teheran.

    Secondo le autorità iraniane, l’uomo avrebbe collaborato con stati considerati nemici da Teheran, come Israele e Arabia Saudita. La famiglia ha affermato con forza che non vi sia nessuna prova a carico di Ahmadreza.

    Il 9 dicembre 2017, la Corte suprema iraniana ha confermato la condanna a morte per Ahmadreza Djalali. I suoi legali hanno appreso che la prima sezione della Corte suprema aveva esaminato e confermato la condanna a morte in maniera sommaria e senza garantire loro di presentare istanza e fornire documentazione di difesa, ha aggiunto l’organizzazione.

    Dall’inizio di novembre, gli avvocati di Ahmadreza Djalali hanno a più riprese contattato la Corte suprema per capire a quale sezione fosse stata assegnata la richiesta di appello, per poter presentare le richieste della difesa.  La procedura in vigore in Iran prevede che gli avvocati siano informati sulla sezione di competenza per l’appello, per poter presentare la documentazione pertinente e le arringhe.

    Gli avvocati di Ahmadreza Djalali hanno affermato che il personale del tribunale ha costantemente detto loro che il caso non era ancora stato assegnato per l’esame e che avrebbero dovuto aspettare. Di conseguenza, la notizia improvvisa della decisione della Corte suprema  è stata scioccante.

    Anche la comunità scientifica ha respinto le accuse rivolte contro di lui, ritenendo che la sua unica “colpa” possa essere quella di aver collaborato con ricercatori israeliani e sauditi nel corso della sua attività scientifica, volta a migliorare le capacità operative degli ospedali in paesi colpiti da disastri.

    Ahmadreza si era trasferito, insieme alla sua famiglia in Svezia nel 2009 per ottenere un dottorato. Tra il 2012 e il 2015, la famiglia Djalali ha vissuto a Novara dove Ahmad era stato assegnato al centro di ricerca interdipartimentale in medicina dei disastri.

    Il ricercatore iraniano non aveva mai tagliato i ponti con il suo paese d’origine, dove si recava ogni sei mesi per tenere dei seminari universitari. A invitarlo nel mese di aprile per un ciclo di conferenza era stata la medesima Università di Teheran.

    In questo toccante appello, la moglie di Ahmadreza Djadalali, racconta come stanno andando le cose.

    “I miei figli mi domandano ‘dove è il nostro papà?’ mi distrugge l’idea di non poter dare loro una risposta. ‘Papà non sta tornando'”, racconta Vida.

    “La nostra unica telefonata è durata un minuto, sono 19 mesi che non lo vediamo. Questa era la felpa che Ahmadreza indossava d’inverno, quando faceva molto freddo, quando mia figlia è veramente triste, e le manca il padre, la indossa”.

    “Un giorno quando Ahmadreza la indossava mia figlia gli disse: ‘la indosserò ogni volta che mi mancherai'”, conclude la donna. 

     

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