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    Come si fa a sconfiggere l’Isis

    L’occidente deve spingere i militanti dello Stato Islamico all’autodistruzione, perché le bombe saranno sempre controproducenti

    Di Chelsea Manning
    Pubblicato il 13 Nov. 2015 alle 11:24 Aggiornato il 12 Set. 2019 alle 03:50

    L’Isis è senza ombra di dubbio un’organizzazione estremista brutale che affonda le sue radici nell’insurrezione avvenuta durante l’occupazione americana dell’Iraq.

    Si è rapidamente guadagnata l’attenzione globale, conquistando territori nell’Iraq occidentale e settentrionale, tra cui Mosul e altre grandi città.

    Basandomi sulla mia esperienza da analista in Iraq durante il periodo in cui l’organizzazione era ancora relativamente giovane, l’Isis non potrà essere sconfitto con le bombe e con i proiettili, anche se la battaglia si estenderà alla Siria, e anche se sarà portata avanti da truppe non occidentali con il supporto aereo.

    Io credo che l’Isis si nutra precisamente dei metodi che l’occidente usa per cercare di sconfiggerlo, ovvero tutti quei cosidetti successi operativi e tattici delle forze americane e europee che sono già stati impiegati in passato. L’Isis dipende dagli errori e dalle debolezze di quegli stessi stati che critica. Per molti aspetti, gli Stati Uniti e i loro alleati rappresentano ancora il centro di gravità dei militanti islamici.

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    Quando si parla di insurrezioni regionali con ripercussioni globali, i leader dell’Isis sono degli strateghi molto astuti. É chiaro che hanno una solida conoscenza di quelle che sono le forze, ma soprattutto le debolezze, dell’occidente. Sanno esattamente quali sono i nostri nervi scoperti, e che cos’è che ci spinge a intervenire in un Paese.

    Per rendersi conto di come siano in grado di comprendere a fondo la mentalità occidentale, basta guardare allo straordinario successo che stanno avendo nel reclutare americani, inglesi, belgi e danesi.

    Attaccare direttamente l’Isis con bombardamenti aerei o l’intervento di forze speciali è un’opzione molto allettante per gli strateghi, visto che promette risultati immediati (anche se non sempre buoni). Sfortunatamente, quando l’occidente decide di usare lo stesso metro di chi combatte, rispondendo alla violenza con altra violenza, contribuisce a perpetuare il ciclo della rabbia, del reclutamento, dell’organizzazione e di conflitti che vanno indietro anche per decine di anni. Questo è esattamente quello che è accaduto in Iraq durante gli anni più caldi della guerra civile, il 2006 e il 2007, e tutto fa pensare che possa succedere di nuovo.

    Allo stesso tempo, evitare il confronto diretto con l’Isis può essere una scelta valida. Ad esempio, nel 2009 e nel 2010, i precursori dello Stato Islamico presero di mira numerosi civili con attacchi suicidi e autobombe nel centro di Baghdad, nel tentativo di provocare un intervento americano. I loro sforzi di reclutamento sono stati vanificati dal fatto che le forze americane e quelle irachene non hanno voluto (o non hanno potuto) rispondere agli attacchi. La brutalità e la barbaria degli attacchi è stata controproducente.

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    Quando invece abbiamo ripagato i terroristi con la loro stessa moneta, gli attacchi kamikaze sono stati “venduti” alla minoranza sunnita irachena come una reazione giustificata a una forza occupatrice che favoriva il governo sciita guidato dall’allora primo ministro Nouri al-Maliki.

    Basandomi sul lavoro d’intelligence che ho svolto in Iraq durante quel periodo, credo che l’unica maniera per riuscire a fermare la crescita dell’Isis sia intraprendere una strategia mirata e consistente di contenimento. Fino a oggi, gli stati occidentali sembrano aver adottato questo tipo di strategia.

    Tuttavia, quando i disastri umanitari sono davanti agli occhi del pubblico, come avvenuto sul Monte Sinjar e a Irbil nell’Iraq settentrionale, e più recentemente con la decapitazione dei giornalisti James Foley e Steven Sotloff, la disciplina dei governi viene messa a dura prova e può cominciare a venire meno.

    Per interrompere la crescita dell’Isis, bisognerebbe concentrarsi su 4 punti:

    • Combattere la narrativa usata nei video postati online per reclutare nuovi militanti. L’Isis ricorre a video montati in maniera professionale e non disdegna neanche i “selfie” durante il combattimento. Questa vera e propria propaganda è indirizzata ai giovani disillusi e disperati, e se contenuta potrebbe diminuire il numero di nuove reclute sia in termini regionali che globali.

    • Stabilire pubblicamente e in maniera chiara confini temporanei nella regione. Questa misura scoraggerebbe l’Isis dal prendere territori dove potrebbero verificarsi crisi umanitarie.

    • Stabilire una moratoria internazionale sul pagamento dei riscatti in cambio di ostaggi. Prevenire il furto e la tassazione di artefatti storici, e soprattutto impedire che l’Isis prenda il controllo delle riserve e delle raffinerie di petrolio a Bayji, in Iraq. In questa maniera, si riuscirebbe a intaccare la solidità economica dell’organizzazione.

    • Lasciare che l’Isis riesca a instaurare uno stato fallito in un’area contenuta e in un lasso di tempo abbastanza lungo per dimostrare alla popolazione locale quanto sia impopolare e incapace di governare. Questo porterebbe un duro colpo alla reputazione della leadership dell’Isis.

    Eventualmente, se sarà contenuto con il giusto approccio, non credo che l’Isis sarà capace di sopravvivere esclusivamente sulla base di una rapida espansione, e l’organizzazione interna comincerà a mostrare le prime crepe. In tal caso, l’Isis comincerà a disintegrarsi e lascerà il posto a entità minori senza un coordinamento centrale, fallendo quindi nell’obiettivo primario di creare un vero e proprio stato.

    Ma il mondo deve riuscire a essere abbastanza disciplinato per lasciare che la fiamma dell’Isis si consumi da sè, e intervenire in maniera attenta ed evitare di cadere nella trappola. Non è una richiesta da poco. Ma l’Isis sta usando un’arma a doppio taglio. Adesso bisogna soltanto aspettare che si facciano male da soli.

    Chelsea E. Manning è un militare e attivista statunitense. Il suo articolo è stato pubblicato sul Guardian.

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