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    Cambiare sesso

    Pensieri e parole sulla transizione sessuale

    Di Claudia Morini
    Pubblicato il 18 Lug. 2013 alle 12:59 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 23:00

    L’ho uccisa perché l’amavo”, è il titolo dell’ultimo libro scritto da Murgia e Lipperini. E sembra assurdo pensare che qualcuno (un omicida) abbia potuto dirlo per davvero.

    Questo è solo un esempio di come ogni situazione reale possieda i propri termini corretti (e innocui).

    Nel caso qui trattato, pertanto, l’uso delle parole giuste è altrettanto fondamentale. Parlare sempre di “transgender” può essere limitativo e fuorviante, nonché mortificante, quando esistono aggettivi (e non sostantivi intenti a standardizzare) che potrebbero colmare le lacune di una sostantivazione troppo generica.

    Secondo la “Equality and Human Rights Commission”, si parla di “disforia di genere” quando un uomo o una donna non vive confortabilmente nel proprio corpo. La “persona transessuale” (e non “il transessuale”) vuole operarsi, e questo processo, complessivo di percorso legale e burocratico, differente da stato a stato, è chiamato “transizione”.

    Così mi ricordo di Georges Burou. Chirurgo pioniere che dal 1956, nel suo studio chiamato “Clinique du Parc” a Casablanca, frenetica capitale economica del Marocco, effettuò più di 800 vaginoplastiche. Mi pare utile ricordare che quello stesso anno il Marocco diventava indipendente e l’attuale codice penale del Paese (articolo 489) prevede una reclusione da sei mesi a tre anni per rapporti fra omosessuali. Difficile dire, da occhio occidentale, quale sia il vero approccio nei confronti delle persone transessuali.

    Estremo nord (Africa), estremo sud: approdando nel Sud Africa di Madiba, scopriamo uno statuto legale sul tema all’avanguardia, l’”Alteration of Sex Description and Sex Status Act”, con procedimenti burocratici per il cambio di nome nei documenti d’identità, almeno sulla carta, abbastanza veloci.

    Winston Zulu è stato un famoso attivista zambiano, nonché il primo del suo paese a denunciare la propria affezione da hiv. In un’intervista condotta nel 2004 da “Irin News” (servizio di coordinazione delle questioni umanitarie dell’Onu), aveva denunciato il fenomeno secondo cui l’apertura, da parte delle istituzioni, nei confronti del cambio di orientamento sessuale in quelle zone dell’Africa fosse una speranza, semplicistica ed erronea, di placare la diffusione del virus dell’Aids.

    Le considerazioni delle istituzioni deputate al tema non sarebbero coscienti, a detta dello stesso, delle reali condizioni sociali del luogo, e finirebbero così col fomentare (anziché placara) l’espansione del virus.

    Ma è la Serbia il paese che più di ogni altro ha suscitato interesse in tempi recenti. Il “New York Times”, con un approfondito articolo pubblicato nel luglio 2012, racconta la realtà di Belgrado e del suo “Center for Genital Reconstruction Surgery”. Qui il dottor Petrovic cominciò le prime operazioni nel 1989; adesso la Serbia garantisce, a chi vi si sottopone, interventi unici di circa sei ore (contro i dolorosi interventi multipli praticati in passato). L’operazione qui è totalmente sussidiata dallo stato: ecco spiragli di aria nuova entrare nella Serbia conservatrice.

    Migrando a oriente, una fatwa dell’Ayatollah Khomeini permette il cambio di sesso in Iran per le “persone transessuali diagnosticate”. L’ex leader Ahmadinejad garantiva il pagamento di metà del costo dell’operazione. Sarà lo stesso con il nuovo leader moderato Rouhani?

    E proseguendo nella stessa direzione asiatica, in testa alla classifica del numero di transizioni troviamo la Thailandia. E l’Italia? Dal 14 aprile del 1982, dopo i primi “coming-out transgender” degli anni Settanta, la legge 164 regola e tutela le transizioni, consentendo il cambio legale sui documenti anche senza operazione fisica.

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