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    C’era una volta Damasco

    Uno sguardo sulla capitale siriana prima dell'inizio della guerra civile

    Di Francesca Amerio
    Pubblicato il 1 Ago. 2013 alle 21:52 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 18:46

    All’inizio tutto sembrava strano – colori, odori, gesti e suoni – ma piano piano, conoscendo alcune persone del posto, sia damasceni che ragazzi venuti da fuori per studiare o lavorare nella capitale, questa realtà Medio Orientale sembrava iniziare ad aprire le numerose bab (porte) che circondano la città vecchia, svelando i suoi vicoli e segreti.

    Segreti scoperti anche grazie all’amicizia con alcune ragazze siriane. Intelligenti belle e divertenti, ma che vivevano una silenziosa sofferenza all’interno delle loro famiglie e più in generale nella quotidianità del sistema patriarcale siriano. Non vedevano l’ora di fuggire via da quel Paese tanto difficile da vivere.

    A voler andar via dalla Siria erano anche molti giovani palestinesi e iracheni che lavoravano in nero in attesa di essere mandati in Canada o negli Stati Uniti con il programma di resettlement dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR) e dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM).

    La Siria è considerato uno dei Paesi più antichi al mondo, un luogo dove la storia ha lasciato il segno con un’impronta decisa e dove spesso il tempo, che per gli occidentali scorre inesorabilmente, si è sopito dando una sensazione di strana tranquillità.

    Ma nella capitale le persone non si sono fermate neanche un istante. Gli anni che hanno preceduto la fatidica data del 15 marzo 2011 (quando è scoppiata la prima protesta contro il regime di Assad) avevano in serbo grandi aspettative per una città – e un Paese – in pieno risveglio.

    Con i ragazzi locali si parlava di tutto con grande leggerezza ma non si toccava mai il tema della politica, se non quando cercavano di sapere cosa ne pensava uno straniero del loro presidente, Bashar al-Assad. Una sensazione particolare per chi proviene da un Paese sommerso da un perenne e spesso inutile dibattito politico, come l’Italia.

    Purtroppo questo silenzio non era dovuto al semplice disinteresse verso la politica del loro Paese, ma alla vera e propria paura di esprimere un’opinione su una questione così delicata. Era assente in Siria la libertà di espressione e di parola.

    I mesi lì scorrevano veloci e polverosi, percorrendo chilometri in lungo e in largo, tra siti archeologici meravigliosi e i “caffe Bagdad”, con in sottofondo l’immancabile voce della cantante libanese, Nouhad Wadi Haddad, meglio conosciuta con il nome di Fairuz (Turchese).

    Dallo sguardo di chi lavorava di giorno e usciva la sera, le vie damascene del 2010 erano diverse da quelle conosciute per la prima volta nel 2008.

    Si respirava un’aria più leggera, o addirittura nuova. Si trattava forse di una maggiore libertà e voglia di vivere che stava nascendo all’interno delle nuove generazioni della società siriana? Una maggiore consapevolezza dei diritti che una persona può avere e quindi reclamare?

    A una ragazza straniera sembrava di sì. Quei pesi da portare addosso durante il giorno, come parlare con cautela o vestirsi in modo adeguato, stavano diventando più leggeri, e quasi svanendo.

    Dopo solo un anno e mezzo, nel dicembre del 2010, il tunisino Mohamed Bouazizi si dà fuoco in seguito alla confisca della sua merce da parte della polizia, innescando così movimenti di protesta in diversi Paesi arabi.

    Movimenti di protesta dovuti al rincaro dei prodotti alimentari di prima necessità – risultato delle riduzioni delle sovvenzioni statali – che hanno aggravato le difficili condizioni di vita delle popolazioni che già lamentavano corruzione, povertà e disoccupazione giovanile in crescita.

    Questa precarietà economica e questo malessere sociale hanno spinto le diverse società a rivendicare – tra rabbia e speranza – la loro dignità, ossia il diritto primario a non vivere più nella paura.

    Ma allora quell’aria “nuova” che si respirava nelle vie di Damasco in qualche modo stava anticipando gli avvenimenti odierni? Il popolo si stava per riscattare, pretendendo maggiore libertà e dignità. Ma era anche giunto il momento di arrestare, da parte dei governi autocratici, questa voglia di cambiamento.

    “Quando il popolo vuole vivere, Le catene si spezzano” dicono le parole scolpite nell’inno nazionale tunisino, paese dal quale il vento di cambiamento si è diffuso.

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