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    Bruxelles il giorno dopo l’attentato

    La testimonianza di Marta Vigneri

    Di Marta Vigneri
    Pubblicato il 26 Mar. 2016 alle 11:23 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 18:48

    Alle 20:15 di mercoledì 23 marzo, quasi 36 ore dopo lo scoppio della prima bomba all’aeroporto di Zaventem, Bruxelles è una città sottosopra. 

    L’attacco terroristico perpetrato dai militanti del sedicente Stato islamico il giorno prima all’aeroporto di Zaventem e alla stazione della metropolitana di Maelbeek ha ucciso 31 persone, ne ha ferite circa 300 e ha sconvolto i ritmi della città e dei suoi abitanti. 

    Gli expats, che di solito lavorano nelle istituzioni europee o nella bolla che intorno vi circola non lontano da Maelbeek, cercano di raggiungere gli aeroporti di altre città del Belgio, della Francia o dei Paesi Bassi, dove è stata dirottata la partenza dei loro voli per tornare a casa per Pasqua.

    Riempiono le file delle biglietterie alla stazione di Midi o all’ingresso degli aeroporti di Charleroi, Lille, Ostende, Anversa o Liegi. Sono ansiosi e stanchi, hanno paura di non poter tornare a casa. 

    Alcuni prenderanno tutti i mezzi possibili e agli orari più improbabili pur di lasciare il paese, altri voleranno su aerei deserti in compagnia dei sedili lasciati vuoti da chi invece è rimasto a Bruxelles. 

    I residenti locali, i brusseleirs nel dialetto locale, si aggirano in macchina in assenza della metropolitana e di altri trasporti pubblici, provano a tornare a casa nonostante molte strade siano chiuse al traffico. Sono solidali con la polizia belga e come sempre intolleranti alla presenza costante di funzionari e lavoratori del quartiere europeo. Che non pagano le tasse allo stato belga e rendono la città bersaglio più appetibile per attentati terroristici.

    I musulmani dei quartieri di Schaerbeek, Molenbeek, Saint Josse o Midi riempiono le strade e le piazze con la consapevolezza di essere sospetti e la paura di essere fermati o perquisiti.  

    Si muovono in gruppo e non si mischiano al resto degli abitanti come fanno spesso, ma a differenza del solito cercano di non incrociarne lo sguardo. Quando lo fanno, i loro occhi sembrano dire “So cosa pensi, sono parte dei 500 mila musulmani che abitano questo paese, dei quali 450 sono partiti a combattere in Siria, nove sono responsabili degli attentati di Parigi e tre hanno fatto esplodere tre bombe ieri”.  

    Intanto, nel brusio costante delle pale degli elicotteri che perlustrano i quartieri, i militari presidiano le strade e gli ingressi delle stazioni, camminano con i mitra tra le braccia riprendendo la routine dei giorni del lockdown di novembre, quando in seguito agli attacchi di Parigi avevano iniziato la caccia ai sospetti e cercavano di sventare nuovi attentati, e la città aveva iniziato ad aspettare il 22 marzo. 

    Poi ci sono le telecamere dei media internazionali intenti a riprendere tutto: il traffico, le strade bloccate, i presidi militari, le file di chi vuole partire, il deserto intorno alle istituzioni dell’Unione Europea, la fermata di Maelbeek distrutta, i gesti di resistenza.

    Nel centro della città, a Place de La Bourse, stranieri di ogni provenienza e belgi si recano a rendere omaggio alle vittime degli attentati e a lanciare messaggi di pace. 

    Sull’asfalto scuro ci sono scritte che dichiarano amore alla città e invadono tutto lo spazio della piazza in ogni lingua e colore. 

    Alcuni appendono striscioni all’entrata del palazzo della Borsa – “Unis contre la Haine” (Uniti contro l’odio), recita uno -, altri accendono ceri o portano fiori nel luogo dove sono raggruppati tutti gli omaggi. Le candele illuminate per terra disegnano cuori o simboli di pace. Qualcuno si aggira per la piazza regalando abbracci gratis. 

    Io sono alla stazione di Midi e ho appena perso l’ultimo treno per Lille, nel nord della Francia, dove il mio aereo per Milano sarebbe partito la mattina seguente invece che da Zaventem. La compagnia aerea aveva avvisato del cambio poco prima della partenza di quell’ultimo treno. 

    Penso di non poter più tornare in Italia. Non so come raggiungere l’aeroporto per tempo, non so nemmeno come tornare dalla stazione a casa perché ho già speso troppi soldi in taxi. 

    Cercando di non soccombere alla sensazione di essere bloccata mi siedo alla fermata dei tram affollata da chi come me non sa come muoversi e spera che i mezzi soppressi siano di nuovo in funzione. 

    Dopo aver chiesto informazioni a un funzionario della Stib, l’azienda di trasporti di Bruxelles, un passante ci si avvicina e sussurra “Il faut marcher” (bisogna camminare). Ci alziamo e, non sapendo che altro fare, camminiamo. 

    Alle 20:15 di mercoledì 23 Marzo Bruxelles è sottosopra ma resiste. 

    I suoi abitanti sanno che non bisogna piegarsi alle conseguenze degli attentati, ma andare avanti, spostarsi, partire, lavorare, tornare a casa, uscire, vivere, convivere e fare tutto adattandosi al nuovo scenario e, se necessario, camminare. 

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