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    La Brexit vista da Birmingham, dove l’Europa non è arrivata

    L'analisi di Cecilia Vergnano da una delle città britanniche che negli anni ha perso più posti di lavoro, finendo per diffidare delle politiche dell'Unione Europea

    Di TPI
    Pubblicato il 27 Giu. 2016 alle 12:31 Aggiornato il 11 Set. 2019 alle 00:13

    Alle 7.30 del mattino del
    23 di giugno un viavai di gente percorre la passerella per alla stazione di
    Bourneville, a pochi chilometri dal centro di Birmingham, per prendere il treno
    locale che li porterá al lavoro. Una donna sulla quarantina all’entrata della
    stazione distribuisce volantini che invitano a votare remain.

    More
    jobs, lower prices, worker’s rights protected, a stronger future
    , sono gli
    slogan riportati sul volantino che riassumono sinteticamente le ragioni del remain:
    your vote can make a difference, si aggiunge poi, don’t let someone
    else decide your future
    . È curioso, penso tra me e me, perchè sono
    esattamente gli stessi argomenti dei sostenitori del leave.

    Passeggiando da sola per
    Birmingham, mi avventuro verso la periferia, mossa da una vaga sensazione di
    essere catapultata di colpo in un film di Ken Loach. Finisco così nel working
    class neighborhood
    di Aston, una distesa di casette di due o tre piani, le
    classiche terraced houses monofamilari dei quartieri operai
    inglesi, un po’ sgangherate, di mattoni rossi e dai piccoli giardini.
    L’atmosfera che percepisco intorno a me è strana; in realtá, non riesco ancora
    a definirla. Non sento lo stesso malessere e la stessa desolazione che ho
    sentito passeggiando per le banlieu parigine, non vedo la stessa massificazione
    che ho visto negli enormi condomini cadenti dove migliaia di famiglie vivono
    concentrate come in giganteschi alveari.

    Ma i mucchi di spazzatura
    in certi angoli delle strade, l’odore pungente di vernice emesso da qualche
    stabilimento nelle vicinanze, le grandi distese di ferrovecchio, pneumatici e
    carcasse degli scrapyards tutto intorno alla zona residenziale, mi
    lasciano pensare che Aston non dev’essere un quartiere tra i più benestanti di
    Birmingham. Inizio a capire, guardandomi intorno, che è più facile pensare che
    il Brexit sia una soluzione quando non si ha molto da perdere.

    Sempre passeggiando per
    Aston scopro, non senza un certo disappunto, che il mio immaginario
    stereotipato di una British working class bianca non corrisponde affatto
    alla realtà – almeno non a Birmingham, una città nella quale le differenze di
    tipo “etnico” o “culturale” sono all’ordine del giorno.

    Incrocio un paio di
    uomini dalla pelle bianca che soddisfano le mie categorie mentali alla Ken
    Loach – maglietta bianco sporco e tuta blu, l’aria di rientrare a casa dopo una
    giornata di lavoro pesante. Ma nel cortile della scuola locale (sono le 4 del
    pomeriggio) non vedo un solo ragazzino, tra quelli che giocano a pallone, con
    la pelle bianca. Per strada le donne e gli uomini che passano sono quasi tutti
    di origini africane, giamaicane, arabe, asiatiche.

    Non mi stupisco quindi il
    giorno dopo quando, alla opening lecture della conferenza universitaria
    per la quale mi trovo a Birmingham, la sociologa Gurminder Bhambra critica
    duramente la “costruzione dell’identità britannica” come identità “bianca”. Why when we think about ‘British identity’ we think of white
    men? Why when we think about ‘British working class’ we think of white workers?

    chiede provocatoriamente dal microfono al centro della sala.

    Si tratta della seconda
    conferenza internazionale sulla superdiversity, un concetto che sta
    riscuotendo un certo successo nelle scienze sociali e che sta iniziando a
    essere usato anche da alcuni politici e giornalisti in sostituzione del vecchio
    concetto di “multiculturalità”, ormai, a quanto pare, già sorpassato. La superdiversity
    f
    a riferimento al processo in atto di “diversificazione all’interno della
    diversità”.

    La prima volta che ho
    sentito parlare di questo concetto, mi è stato spiegato così: “per dire, quando
    vai a Londra e ti ritrovi dentro un quartiere dove gli unici bianchi sono
    polacchi recentemente immigrati senza cittadinanza britannica, e gli unici
    cittadini britannici sono tutti originari dei paesi del Commonwealth e nessuno
    di loro ha la pelle bianca”.

    Bhambra aggiunge, al
    microfono, che non esiste né è mai esistita una Gran Bretagna indipendente, e
    chi la rimpiange sta in realtà cancellando con una pennellata secoli e secoli
    di storia: la Gran Bretagna è sempre stata parte di qualcosa di più grande, che
    fosse l’Impero, il Commonwealth o l’Unione Europea. Inutile dire che
    nell’ambiente cosmopolita universitario le preferenze si orientano
    indiscutibilmente per il remain – ancora una volta, penso tra me e me,
    come comunità di intellettuali abbiamo ottimi argomenti ma siamo assolutamente
    incapaci di farli circolare al di fuori del nostro circuito ristretto.

    Al ritorno dalla
    conferenza, Edward, il ragazzo di Birmingham che mi ospita in questi giorni per
    la conferenza, mi chiede di accompagnarlo ai seggi. Mancano pochi minuti alla
    chiusura. Edward Genochio, 38 anni, nato in Belgio e con lontane origini
    italiane, non è proprio un tipo qualsiasi: adesso conduce una normalissima vita
    lavorando per una compagnia di servizi informatici, ma da giovane è stato il
    primo cittadino britannico a compiere l’eccezionale impresa di raggiungere la
    Cina in bici partendo dalla Gran Bretagna, attraversando l’Europa, gli Urali e
    passando dalla Mongolia.

    Ancora prima ha studiato Antropologia Culturale e
    Geografia all’Università di Cambridge. Le conversazioni con lui in questi
    giorni sono state brillanti e ricche di stimoli: è una persona colta, open-minded,
    vivace e curiosa.

    È stato dunque sorprendente
    scoprire la sua intenzione di voto per il leave. Camminando verso i
    seggi, mi spiega che crede nell’Europa, ma non crede nell’Unione Europea. E che
    se al referendum dovesse vincere il remain, le autorità europee non
    modificherebbero di una virgola le loro politiche economiche antisociali. Il
    suo leave è, a modo suo, un voto “di sinistra”, o quantomeno di
    protesta.

    Dentro alla scuola di
    mattoni rossi, i membri del seggio ci raccontano della grande affluenza che c’è
    stata durante la giornata. Sotto gli ultimi raggi di sole del tramonto, si
    procede a poco a poco a smontare ci si prepara per la lunga notte dello
    spoglio.

    E in effetti è una notte
    lunga e poco riposante. Mi sveglio alle 6 del mattino con un biglietto di
    Edward (che si è svegliato ancora prima di me) sotto la porta di camera mia: “Looks
    like Brexit!!!”,
    dice, “48% remain, 52% leave. Keep your !! They
    will make you a
    millionaire! 🙂

    Birmingham è tra le poche
    città britanniche in cui ha vinto il leave. Londra, Liverpool,
    Manchester, Bristol si sono espresse in maggioranza per il remain. Non
    posso fare a meno di collegare questo dato con la visione degli ettari ed
    ettari di terreno industriale, chi iniziano già a pochi isolati dal centro
    della città.

    È questa la
    caratteristica più impattante di Birmingham, ovunque si passeggi (non solo nel centro),
    e la domanda che mi scava dentro come un tarlo è: com’è stato possibile
    riconvertire l’economia di questa città? Dove sono andate a finire le migliaia
    di persone che lavoravano nelle fabbriche? Davvero è stato possibile
    riconvertire tutta la manodopera non qualificata dell’industria in posti di
    lavoro nel settore dei servizi e del terziario?

    I dati statistici
    rivelano che in effetti a Birmigham la disoccupazione non è altissima (6,2 per cento),
    ma è superiore a quella di Manchester, Bristol e Liverpool, ed è pressappoco il
    triplo del tasso medio di disoccupazione nel Regno Unito.

    Le fabbriche e le
    industrie dismesse adesso non sono nient’altro che spazio, spazio vuoto. Spazio
    che si è riconvertito anch’esso in merce: “Si affittano magazzini” si legge
    sulla facciata di un vecchio stabilimento, “Spazio in affitto”, si legge su
    un’altra: “to let”, “to let”, “to let”: pare un leitmotiv
    costante quando si leggono i cartelli tutt’intorno alle vecchie fabbriche e ai
    capannoni in disuso.

    Si è ampiamente riflettuto,
    negli ultimi due giorni, sul significato sociologico di questo risultato
    elettorale. Si è parlato di una nazione spaccata in due, divisa in termini
    generazionali, culturali e di classe, con i losers
    della globalizzazione da una parte e winners
    dall’altra. Quelli che sentono di non avere granché da perdere, da una parte, e
    quelli hanno dei capitali, una carriera o un percorso di mobilità sociale
    ascendente da difendere.

    Avendo seguito con
    attenzione le ultime vicende elettorali in Italia e l’“inaspettata” scalata dei
    governi locali da parte dei 5 Stelle, non posso fare a meno di notare un certo
    parallelismo per quanto riguarda il carattere inatteso e inaspettato di questi
    risultati elettorali. Nonostante la forte componente xenofoba e
    anti-immigrazione dei sostenitori del leave (tra cui molti tra gli
    stessi immigrati, che assecondano dinamiche di “primi arrivati” contro “ultimi
    arrivati”), i Brexiters non sono una massa indifferenziata di razzisti,
    così come I 5 Stelle non sono una massa indifferenziata di destrorsi.

    La xenofobia e la
    nostalgia per l’Impero sono indiscutibilmente alla base di molte preferenze di
    voto nel caso britannico, ma lo sono anche i reclami che riguardano l’accesso
    alla casa e al lavoro, i salari bassi, i tagli alle politiche sociali e al
    sistema sanitario ed educativo, l’incertezza per il futuro, e la sensazione
    generale che il progresso e la prosperità promessi governo dopo governo
    sarebbero stati per “loro” e non per “noi”.

    Questo “loro” e questo
    “noi” altro non sono che gli indicatori delle diseguaglianze sociali, che
    l’imposizione delle politiche neoliberiste a partire dagli anni Ottanta ha
    progressivamente contribuito ad accrescere.

    Così come la vittoria dei
    5 Stelle a Roma e a Torino si presenta come un indicatore chiaro della breccia
    tra quartieri tradizionalmente benestanti e quartieri gentrificati, da un
    parte, e periferie per troppo tempo abbandonate, dall’altra. Anche se ci sono
    poche possibilità che questo slittamento populista dia corso a politiche
    redistributive realmente capaci di ridare voce e opportunità a chi è stato in
    questi anni sempre più marginalizzato, il messaggio di malcontento e di sfida è
    chiaro.

    Lo stupore dei partiti
    tradizionalmente al governo, e soprattutto di ciò che rimane del
    centro-sinistra, davanti all’avanzata di queste rivendicazioni dal basso, tanto
    in Italia come nel Regno Unito, si presenta come particolarmente fastidioso e arrogante.
    È molto facile tacciare le masse di ignoranza e irrazionalità dopo decenni in
    cui si è fatto di tutto per depoliticizzarle, smobilitarle,
    infantilizzarle. 

    Appunto perché ben
    lontana dalla tentazione di esaltare questi risultati elettorali come un
    ritorno di una certa coscienza di classe, considero importante ricordare cosa
    succede quando questa coscienza di classe viene assopita o annichilata.
    L’antropologia ci insegna che le relazioni sociali si costruiscono sempre a
    partire da costruzioni identitarie, che creano coesione all’interno dei gruppi
    umani.

    Senza voler idealizzare le condizioni di lavoro infami che hanno
    caratterizzato per decenni o per secoli la vita dei lavoratori delle miniere e
    delle fabbriche, è innegabile che l’orgoglio, il riconoscimento sociale e il
    senso di solidarietà di gruppo che l’identità di minatore o operaio genera
    possono apparire di gran lunga preferibili a quelli di un’identità da
    disoccupato o precario.

    Ma mentre le vecchie
    distinzioni di classe sono state progressivamente disattivate, delle nuove
    categorie identitarie sono andate progressivamente attivandosi. Queste derive
    identitarie possono manifestarsi a diversi livelli (a livello di quartiere, a
    livello nazionale, ma anche a livello globale), includono le derive di tipo
    etnico o religioso o quelle mafiose (soprattutto in contesti di quartiere) e
    possono arrivare fino al terrorismo.

    La nostalgia per il
    grande Impero Britannico e la riattivazione dell’identità britannica altro non
    è che il risultato dell’incapacità (o della mancanza di volontà) della classe
    al governo di riportare la questione sociale (ovvero la questione della
    ridistribuzione della ricchezza) su un’arena propriamente politica, sublimando
    tale questione in narrazioni distorte. Dalla parte opposta, un altro tipo di
    deriva (il fondamentalismo neoliberista della Banca Centrale Europea e dei
    mercati finanziari che dettano legge in Europa) esaspera la questione e non
    aiuta a riportare il conflitto sul terreno della politica nel senso
    tradizionale del termine.

    Tanto a Torino come a
    Birmingham gli ettari ed ettari di terreno industriale abbandonato ci parlano
    di un’autentica guerra che si è combattuta in tempi di pace, e che ha lasciato
    dietro di sé macerie e disastri sociali. Capannoni deserti e “generazioni
    perdute”.

    Quando ci salutiamo prima
    che io parta, Edward mi chiede un’ultima cosa. “Per favore, quando torni a
    casa, spiega al mondo là fuori che noi inglesi non abbiamo niente contro di
    voi. È una lezione che volevamo far pagare ai nostri politici e ai politici
    europei. Non so se ci riusciremo”. Provo, per quel che posso, a riferire il
    messaggio.

    * articolo a cura di Cecilia Vergnano (Universidad de Barcelona, Observatori d’Antropología del Conflicte Urbá, Grup de Recerca sobre Exclusió i Control Socials). Questo articolo è stato pubblicato anche dai blog Napoli Monitor e Sistema Torino.

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