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    Su un treno per Londra in tempi di Brexit

    Il reportage di Davide Lerner che seguirà per TPI il referendum sulla Brexit da Londra

    Di Davide Lerner
    Pubblicato il 22 Giu. 2016 alle 11:36 Aggiornato il 11 Set. 2019 alle 00:15

    Se ti dirigi verso l’ufficio di Nigel Farage, al settimo piano del palazzo Altiero Spinelli del Parlamento Europeo, non trovi una porta ma ti scontri con un muro. Controlli l’appunto – ufficio 07F367 – sembra corretto. Riguardi interdetto la targhetta, tocchi la superficie grigia attorno al codice dell’ufficio: “ma vuoi vedere che è una porta scorrevole?”. Niente. Sembra una guasconata di quel Nigel Farage, politico noto per essere istrionico e buffo. Per emozionare le folle con il suo linguaggio politicamente scorretto – pensate anche voi quello che penso io ma non ve la sentite di dirlo? E io lo dico! È da 17 anni che risiede nel parlamento di Bruxelles, e da molto più a lungo vorrebbe cancellare l’Unione. I suoi fedeli assistenti lo seguono ovunque vada, come giannizzeri.

    “È qui l’ufficio, ci cascano sempre tutti!”, dice uno facendo capolino da una porta qualche metro più in là. “Non so perché la targhetta l’abbiano messa lì, forse per informarvi che Nigel preferirebbe non esserci, qui speriamo tutti di essere licenziati”.

    Giovedì 23 giugno, però, la farsa potrebbe trasformarsi in tragedia. Sicuramente potrebbe smettere di farci ridere, come tutte le battute e le sparate di Nigel che – laddove innocue ed inoffensive – potevano pure divertire. Come quando disse al neo eletto presidente del Consiglio europeo Von Rompuy che aveva lo stesso carisma di uno straccio bagnato, in seduta plenaria. O come quando attaccò una risoluzione europea sull’energia pulita: “Oltre a tutto il resto devono pure imporci le rinnovabili, quei ridicoli zeloti del cambiamento climatico; quei mostri anti-estetici buoni solo ad ammazzare pipistrelli e deturpare i nostri paesaggi (i parchi eolici, ndr.) vorrei farli saltare tutti in aria!”.

    Ecco, ma se fra qualche giorno la Brexit diventasse realtà, Nigel l’avrebbe combinata davvero troppo grossa. E sa bene che questa volta si fa sul serio, mentre si aggira come un re per Londra navigando con le caravelle della campagna per il leave sulle acque del Tamigi. Qualche giornale scrive che l’uscita dall’Unione ne farebbe uno dei politici più di successo della storia inglese. E la tragedia – visto come ha saputo trasformare un potere politico limitato in un’influenza enorme – è che sarebbe vero. 

    Dal centro di Bruxelles bastano un paio d’ore di treno per raggiungere Londra. L’Eurostar si lascia alle spalle gli accorati appelli di Gordon Brown, che al Parlamento arringava il suo pubblico contro la Brexit. “È la perdita di sovranità che vi dà pensiero? E allora occupatevi del fatto che dalla fine della seconda guerra mondiale dipendiamo militarmente dagli Stati Uniti”, diceva. “Non di come trattati firmati dai nostri governi facciano sì che condividiamo alcune leggi”. Già, l’elemento centrale dello stato sovrano di Weber era il monopolio della forza, non certo la libertà da trattati internazionali o dalle direttive europee.

    Ma i sostenitori del leave non si fanno certo impressionare da questo tipo di osservazioni, penso sul treno mentre il torpore comincia a trasformarsi in sonno. “Che ci fai qua, non hai il biglietto per Londra?”, mi scuote però all’improvviso una guardia giurata. “Questa carrozza è riservata a chi, per ragioni di visto, deve scendere a Lille o a Calais”. 

    Il risveglio è duro: sono tempi di Brexit. E non serve arrivare alla stazione londinese di King’s Cross per rendersene conto, a quanto pare. Prendo il mio posto nella carrozza dei “normali”, e chiedo lumi a un impiegato Eurostar. “È successo in passato che rifugiati privi del visto per l’Inghilterra si imbarcassero sul treno a Bruxelles con un biglietto per Lille o Calais, le fermate intermedie”, spiega Jules, francese di colore con gli occhi amichevoli. “Ma in realtà poi non scendevano, e sfruttando le disattenzioni nei controlli continuavano fino a Londra, oltre lo spazio Schengen”. Questo chiaramente non piaceva agli inglesi. “È incominciato così il periodo delle liste, le facevamo noi di Eurostar in collaborazione con le stazioni di Lille e Calais”. Vi veniva indicato chiaramente chi dovesse scendere e dove, e se i conti non tornavano il treno veniva bloccato nelle stazioni francesi.

    “Registravamo ritardi di diverse ore”, spiega Jules, “perché la polizia doveva salire sul treno per cercare gli illegali, che chiaramente non volevano essere trovati”. Le cabine-bagno venivano sfondate, gli immigrati sorpresi nell’unico nascondiglio che è ragionevole immaginare su un treno. “E poi gettati sulla banchina – mamme, bambini, gli agenti francesi non ci andavano per il sottile. Nonostante le urla”. Gli occhi di Jules si fanno tristi. “Vado a casa piangendo ogni sera, ma non posso permettermi di perdere il lavoro”. Già, se chiudo un occhio e mi faccio beccare chi dà da mangiare ai miei figli, poi. 

    E così nasce la carrozza speciale – troppo facile battezzarla “carrozza apartheid”. Il treno a quel punto entra nella stazione di Londra. La folla, le facce diverse, le mille lingue che mettono a disagio Farage. “L’altra sera a Londra ho preso il treno da Charing Cross, andando verso fuori. Ci siamo fermati a London Bridge, New Cross, Hither Green, e soltanto dopo Grove Park ho cominciato a sentire qualcuno che parlasse inglese. Mi fa strano? Puoi dirlo forte!”. A Victoria Station arrivano ogni settimana 2.000 nuovi immigrati – il problema del sovraffollamento della City non è un’invenzione della campagna pro leave. Le invenzioni sono altre – che la Turchia sta per entrare in Europa, che ogni settimana Westminster devolve 350 milioni di sterline a Bruxelles. Ma che qui i trasporti pubblici non ce la facciano più, questo è vero. Basta prenderli. E che la crisi abitativa sia anche dovuta all’eccesso di domanda – di questo passo la città conterà 9 milioni di persone nel 2020, addirittura 10 nel 2030 – è anche vero.

    Dopo l’ingresso nell’Unione europea dei paesi dell’Europa dell’est – economicamente molto più arretrati, come ha ricordato David Cameron durante le trattative pre-referendum con Donald Tusk – i tassi di crescita demografica sono saliti in modo significativo. Dal 2004, l’anno dell’allargamento, sono arrivati più di un milione di immigrati dall’Europa orientale. Da qui lo stereotipo dell’idraulico polacco – proprio dalla Polonia sono arrivati due terzi di quei nuovi migranti – che ancora accompagna la polemica pro Brexit. 

    TPI lascia la marea umana di Victoria Station e si dirige verso le case neoclassiche dei benestanti di Pimlico – qui un metro quadro può costare fino a 20.000 euro. I colonnati bianchi – tutti identici per diversi isolati – fanno da cornice ai bellissimi giardini privati, curati nel dettaglio. In una di queste case, ormai quasi un secolo fa, ci abitava uno dei personaggi più contesi nella campagna sull’UE: Winston Churchill. Ora al suo posto ci abitano degli italiani, ma restiamo su Churchill. La campagna remain lo dipinge come un padre fondatore dell’Europa, alla stregua di un De Gasperi o di uno Spinelli.

    “Dobbiamo costruire una sorta di Stati Uniti d’Europa”, aveva detto nel discorso di Zurigo del 1946. All’ingresso del parlamento europeo di Strasburgo – anche da quelle parti cercano in tutti i modi di appropriarsene – il suo grande cartonato riporta proprio questa citazione. Ma i pro Brexit non accettano questa versione. In un discorso ai Comuni del giugno 1950, ribattono, aveva spiegato chiaramente che l’Inghilterra doveva “associarsi intimamente” con le istituzioni europee ma non divenirne un “membro ordinario”. La guerra di narrative fra remain e leave non lascia tranquilli nemmeno i morti, quando mancano meno di 48 ore alla resa dei conti. 

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