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    Brexit: should they stay or should they go?

    Il Regno Unito sembra da anni in un limbo tra l'integrazione nell'UE e una condizione di eccezionalità rispetto agli altri stati membri. L'analisi di Olimpia Troili

    Di Olimpia Troili
    Pubblicato il 15 Giu. 2016 alle 09:10 Aggiornato il 11 Set. 2019 alle 00:16

    Should I stay or should I go cantavano i Clash sulle note
    dell’omonima hit che scalò le classifiche fino alla vetta nei primi anni Novanta. D’altronde, non si può certo dire che gli inglesi non siano da sempre
    grandi amanti del rock. La Gran Bretagna sembra essere rimasta ferma proprio a
    ciò che si chiedeva Mick Jones, voce del gruppo, nell’ambito del rapporto con
    l’Unione Europea.

    Restare o andare via è un quesito più volte riproposto e mai
    esaurito. Basti pensare ai vari opt out di cui l’isola d’oltremanica detiene il
    primato assieme ai cugini del Regno di Danimarca.

    Già oggi gli inglesi non fanno parte dell’acquis di Schengen
    né dell’unione monetaria, non rispondono alla Corte di giustizia in merito ad
    eventuali violazioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione e
    decidono caso per caso in materia di cooperazione giudiziaria e di polizia in
    materia penale.

    Se tutto ciò ha portato qualcuno a definire la Gran Bretagna
    già oggi un’outsider dell’UE che resta de facto fuori dal dibattito sui
    principali temi che hanno animato i consessi europei negli ultimi anni – dalla crisi debitoria di
    alcuni membri dell’eurozona a quella dei migranti, oltre a quello su un
    eventuale ulteriore approfondimento dell’integrazione economica – non aveva
    calcolato che la canzone dei Clash, evidentemente, gli inglesi ce l’hanno nel
    sangue.

    Così i discendenti di bretoni e sassoni, oscillanti tra
    tendenze isolazioniste da una parte e la consapevolezza della necessità di
    rimanere ancorati al sistema europeo per una serie di ragioni dall’altra, tra
    cui la consapevolezza che il mercato unico europeo, da cui la Gran Bretagna
    trae grandi vantaggi, esiste solo grazie e dentro l’Unione e che non è
    destinato a sopravvivere alla sua crisi, sono chiamati alle urne per esprimere
    la loro volontà: brexit o bremain è ciò che oggi sembrano poter scegliere. 

    Eppure, la situazione è un po’ più complessa. Innanzitutto
    perché il mandato di divorzio dall’Unione che firmerebbero i cittadini inglesi
    se vincesse il “Sì”, sarebbe del tutto o quasi un salto nell’ignoto.

    L’eventuale uscita di uno stato membro, pur introdotta su
    carta dall’Art. 50 del trattato sull’Unione europea, non si è mai vista nei
    fatti. Ergo, tutto eventualmente dipenderà da ciò che verrà negoziato tra i due
    “ex coniugi” nell’arco di due anni a partire dall’eventuale notifica da parte
    del Regno Unito del risultato positivo del 
    referendum al Consiglio europeo. 

    Secondo, sebbene il quesito referendario sia formulato in
    maniera apparentemente semplice – “Il Regno Unito deve restare nell’Unione
    Europea o deve lasciare l’Unione Europea?”- nessuno sa che fine farebbero tutte
    le questioni minori collegate all’appartenenza.

    Ad esempio, cosa farebbe la Gran Bretagna rispetto a tutti
    gli accordi commerciali che l’Unione europea ha sottoscritto con paesi terzi? O
    ancora, che fine farebbero gli europarlamentari inglesi con incarichi di
    rilievo in ambito comunitario durante il periodo di transizione? E i funzionari
    inglesi in Consiglio o in Commissione? Vista la totale situazione di incertezza
    non sorprendono le file ai consolati di altri stati membri dei britannici che
    risiedono all’estero per ottenere la cittadinanza, o l’andamento fin troppo
    ballerino dei mercati. La verità è che noi europei siamo molto più impreparati
    di quanto crediamo, sia a livello istituzionale che economico, a un’eventuale
    brexit.

    L’argomento democratico in favore del referendum, forte e
    motivato, non giustifica da solo la valenza del ricorso allo strumento senza
    un’adeguata informazione su come funzionerebbe nei fatti un’uscita dall’Unione.

    Esso ci porta su un terreno pericoloso, capace di creare un
    precedente difficilmente gestibile nelle condizioni attuali. La risposta
    democratica che tutti i cittadini europei e non solo gli inglesi attendono, non
    deve consistere nell’indire una serie di referendum nazionali sull’appartenenza
    o per meglio dire la convenienza nel restare nell’Unione ma in un grande
    mutamento dell’assetto istituzionale dell’Unione in senso democratico.

    Solo così l’Europa si dimostrerà capace di salvare se stessa
    e di tornare un progetto attrattivo per chi ne fa parte e non solo. Non sarà
    mica tutta colpa del rock.

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