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    Birmania, il coraggio dei prigionieri

    In Myanmar è in atto un processo di democratizzazione. Ma centinaia di detenuti politici rimangono ancora in prigione. Intanto Obama vola in Asia

    Di Giampaolo Tarantino
    Pubblicato il 20 Nov. 2012 alle 12:24 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 22:04

    Birmania coraggio dei prigionieri

    Abhaya, il palmo della mano aperto verso chi osserva è un gesto che nella cultura buddista e induista significa ‘coraggio’. Quel coraggio che serve al popolo birmano per continuare a lottare e all’Occidente per spingere i militari a chiudere definitivamente con la dittatura. Nonostante un rapido processo di democratizzazione, il regime del Myanmar (il nome imposto dai generali) continua a tenere in carcere diverse centinaia di detenuti politici. Il fotografo britannico James Mackay racconta il dramma di queste persone attraverso particolari ritratti fotografici. Il progetto si chiama Abhaya – Burma’s Fearlessness, appunto ‘Il coraggio della Birmania’.

    L’idea artistica che sta dietro al libro fotografico è che i soggetti diventino fisicamente portatori di un messaggio di pace e resistenza. Sono rivolti verso la macchina fotografica e sulla loro mano è scritto il nome di un altro detenuto politico, in nome della solidarietà che li unisce. Tra questi ritratti c’è anche quello di Aung San Suu Kyi, il premio Nobel per la pace che è diventata simbolo della lotta del suo popolo contro l’oppressiva giunta militare. Il suo volto gentile ma fiero è diventata una sorta di icona globale. Al contrario, la maggior parte dei prigionieri politici birmani sono rimasti a lungo senza nome e senza un volto. Soltanto una serie di numeri. Per sette anni anche Bo Kyi è stato solo un dato statistico. Un uomo senza identità rinchiuso in una cella.

    Nel 1988, da studente universitario, partecipò a una serie di manifestazioni contro il regime. Durante la successiva repressione furono uccise migliaia di persone. Moltissimi manifestanti furono arrestati, tra cui lo stesso Kyi, che verrà torturato e sottoposto a continui abusi. Una volta liberato Bo ha raccontato la sua storia. La voglia di non arrendersi, l’istinto di sopravvivenza a cui si è aggrappato per resistere. Durante la prigionia decide di concentrarsi sullo studio dell’inglese. Un obiettivo a cui si dedica totalmente, lo scopo a cui si abbarbica per resistere alla durezza della detenzione. Fugge in Thailandia, dove fonda un’associazione per far conoscere al mondo il dramma del suo Paese, raccogliere notizie sui detenuti politici delle carceri birmane e chiedere al’Occidente di fare pressioni sul regime birmano per la loro liberazione.

    Negli ultimi mesi, in Myanmar, sono stati rilasciati centinaia di detenuti politici. Una mossa che fa parte del piano del governo birmano volto a farsi accettare dalla comunità internazionale. Nel giro di un anno è stata sostituita la giunta militare con un governo civile ed è stato permesso ad Aung San Suu Kyi di candidarsi alle elezioni in un Parlamento finalmente aperto dopo 20 anni. La morsa della censura si è allentata. Una serie di cambiamenti che ha avviato il disgelo tra Birmania e Stati Uniti. La svolta è stata sancita sancita dalla prima visita ufficiale di Barack Obama, che nel corso di un tour asiatico (le prime tappe sono state Thailandia e Cambogia), lunedì 19 novembre ha incontrato a Rangoon il presidente Thein Sein e Aung San Suu Kyi. Una decisione che resta piuttosto contestata, anche dopo aver assistito alle scene di giubilo dei birmani al passaggio del presidente americano.

    Nonostante le riforme i militari restano al potere. Sono una casta potentissima e vorace che ha fatto i propri interessi tenendo in ostaggio il Paese. Il dubbio è che dietro la parvenza di un governo civile si nasconda la prosecuzione del regime in forme più morbide. Thein Sein ha smesso la divisa; oggi veste solo eleganti abiti civili di taglio occidentale ma era un pilastro della giunta. Nel 2007 divenne premier e si prodigò nel sedare le rivolte dei manifestanti pro-democrazia scoppiate in diverse città. I militari hanno capito che se vogliono far sopravvivere il regime, c’è bisogno di presentare al mondo una faccia meno aggressiva. Per questo hanno accolto le riforme. L’apertura al dialogo da parte americana si inserisce nella partita che gli Usa giocano con la Cina sullo scacchiere asiatico. Pechino è stato il principale partner del Myanmar nell’ultimo decennio. Per mantenere l’influenza in una regione che vede l’ascesa economica e militare del Dragone, Washington vuole abbracciare lo Stato birmano. La visita di Obama potrà essere giudicata un vero successo solo se riuscirà a rendere più rapido e deciso il processo di democratizzazione. Solo se i nomi delle persone ritratte nelle immagini di Mackay potranno tornare a essere i nomi di cittadini liberi.

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