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    Beirut un anno dopo: “Vogliamo la verità sull’esplosione”. Reportage dal Libano

    © Elisa Gestri
    Di Elisa Gestri
    Pubblicato il 6 Ago. 2021 alle 13:47 Aggiornato il 6 Ago. 2021 alle 13:55

    Nel pomeriggio di mercoledì 4 agosto centinaia di migliaia di persone si sono riversate al Porto di Beirut, dove un anno prima una partita di nitrato di ammonio, potente esplosivo lì stoccato, causò una deflagrazione costata più di 200 vite umane, migliaia di feriti, e la distruzione totale dell’area. Il governo in carica a quel tempo si dimise immediatamente e da allora altri due primi ministri designati a formare un nuovo governo hanno rinunciato all’incarico.

    Lunedì 26 luglio è stato designato primo ministro con l’incarico di formare il nuovo Governo l’imprenditore sunnita multimilionario Hajib Mikati, che non è riuscito a portare a termine l’incarico entro la data, terribilmente significativa, del 4 agosto.

    Il popolo libanese è sceso in massa al porto in primis per chiedere conto a una classe politica insipiente e corrotta dell’indagine sull’esplosione, bloccata dall’immunità politica dei ministri allora in carica (i parenti delle vittime chiedono da mesi che i politici coinvolti rinuncino all’immunità e siano interrogati sui fatti, ad oggi senza risultati); della ormai cronica scarsità di elettricità, carburante, cibo e medicine, e della pesante svalutazione della Lira Libanese, che ha reso carta straccia stipendi e pensioni.

    © Elisa Gestri

    Al porto hanno sfilato i parenti delle vittime e le persone rese disabili a causa dell’esplosione; hanno sfilato i vigili del fuoco della caserma adiacente al porto, la prima a rispondere all’emergenza, che annoverano dieci morti tra le loro fila; hanno sfilato famiglie intere, movimenti, Ong, congregazioni religiose islamiche e cristiane, associazioni di categoria, in primis quella degli avvocati, ha sfilato insomma l’intera società civile.

    L’unica, pesantissima, assenza è stata quella del governo, ancorché dimissionario, e di tutte le istituzioni politiche e governative. Poco prima delle 18 e 07, ora esatta della deflagrazione, mentre ci si apprestava ad osservare un minuto di silenzio e a scandire i nomi delle vittime, è passata rombando sul porto una squadriglia dell’aeronautica con la scia colorata di bianco rosso e verde, cosa ritenuta dai presenti del tutto fuori luogo e che ne ha aumentato la rabbia.

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    Così, immediatamente dopo il breve momento di silenzio e preghiera, mentre il Patriarca Maronita Rai celebrava la Messa per le famiglie delle vittime, un centinaio di persone si sono avviate in marcia verso il Parlamento, com’era previsto e prevedibile, al grido di “Giustizia” e “Thawra” (Rivoluzione), un richiamo alle sollevazioni dell’ottobre 2019, quando il crack del Libano era appena iniziato.

    I dimostranti hanno forzato l’area di sicurezza e cercato di penetrare i muri di cinta dell’edificio, tirando sassi e appiccando fuochi agli angoli dell’isolato; da dentro, i militari in tenuta antisommossa hanno riversato sui presenti gas lacrimogeni in quantità e sparato proiettili a salve. Risultato: circa 55 feriti, tra cui molti colleghi della stampa e anche chi scrive, trascinata su un’ambulanza da mani sconosciute e trattata con la maschera ad ossigeno per aver respirato il gas ma senza gravi conseguenze, a parte escoriazioni diffuse sulle parti del corpo scoperte e lividi su gambe e braccia. Inschalla, come dicono qua. In questi casi, si sa, la scritta “press” sul giubbotto vale come l’arcinoto “non sparate sul pianista”: chi si trova in mezzo ai tafferugli conosce bene i rischi cui va incontro. Una decina di dimostranti, invece, hanno accusato collassi e malori a causa del lacrimogeno e sono stati portati in ospedale, secondo le stime della Croce Rossa.

    © Elisa Gestri
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    Frattanto squadre di militari in tenuta antisommossa hanno circondato Martyrs’ Square, o Place des Cannons alla francese, la grande piazza adiacente al Parlamento, ma non si è arrivati al confronto diretto con i manifestanti, privi oggettivamente dei numeri per fare alcunché. Mentre il buio calava e i feriti venivano trattati, la folla si è lentamente dispersa nel giro di qualche ora, e la protesta, così come i fuochi appiccati in tutta l’area, si è spenta da sola.

    Di tutto ciò si è avuta notizia dalle cronache dei media stranieri presenti sul posto, perché le tv libanesi sono state in down per qualche ora e il web risultava inaccessibile per buona parte della giornata. Nei giorni successivi i media locali hanno dato ampio spazio alla cronaca della celebrazione, sottacendo quel che è successo dopo. Dunque nessuna giustizia per il popolo libanese e i suoi morti, almeno per ora. Eppure non si può dire che il piccolo Paese di poco meno di sette milioni di abitanti, grande più o meno come le Marche, sia lasciato solo nella sua agonia.

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    La mattina del 4 agosto il Papa nell’Udienza del mercoledì ha di nuovo richiamato la Comunità Internazionale ad aiutare il Libano; il presidente francese Macron lo stesso giorno ha presieduto una conferenza internazionale per il Libano in cui Francia e Stati Uniti hanno offerto cospicui aiuti monetari alla popolazione libanese. Ma, ha avvertito il presidente Usa Biden, “Nessun aiuto sarà mai sufficiente se i responsabili politici del Libano non si impegnano a fare il duro ma necessario lavoro di riforma e a combattere la corruzione”. Macron dal canto suo non ha risparmiato parole dure alla classe politica libanese, denunciando (e non è la prima volta) “la colpa storica e morale” delle istituzioni. Secondo molti però, gli sforzi della Comunità Internazionale rischiano di essere addirittura controproducenti per il popolo libanese: “Monsieur Macron, la smetta di aiutare un regime che ci ha ucciso”, si leggeva al porto sul cartello di una manifestante.

    Di certo con i fatti di ieri il popolo libanese e la classe politica si sono ulteriormente allontanati, separati da un muro invisibile ben più invalicabile di quello del Parlamento.

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