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    Cosa pensa Barbara Spinelli della Brexit

    Davide Lerner ha intervistato l'eurodeputata e giornalista figlia di Altiero Spinelli, uno dei padri fondatori dell'Europa unita alla vigilia del referendum sulla Brexit

    Di Davide Lerner
    Pubblicato il 23 Giu. 2016 alle 09:33 Aggiornato il 11 Set. 2019 alle 00:14

    Entrando al parlamento europeo si incrocia lo sguardo torvo e arrabbiato di Wiston Churchill. Il suo cartonato fissa gli occhi sull’ascensore che sale verso l’emiciclo di Strasburgo, la scritta “Stati Uniti d’Europa” si staglia sulla parte posteriore dell’imponente omaggio allo statista inglese.

    Li aveva predetti nel discorso di Zurigo del 1946, e prima ancora in un articolo del 1930, ma li stiamo ancora aspettando. Forse aveva ragione Spinelli, il federalista del “tutto subito”. Perché adesso l’architettura europea rischia di sgretolarsi, dopo decenni di progresso prudente nel nome del funzionalismo di Jean Monnet (l’idea che l’integrazione europea dovesse procedere passo passo, settore dopo settore secondo necessità, piuttosto che tutta in una volta). Lo chiediamo a Barbara Spinelli, giornalista e commentatrice oltre che deputata al parlamento di Bruxelles. I suoi genitori Altiero Spinelli e Ursula Hirschmann – entrambi sostenitori di un’Europa unita ben prima che divenisse realtà – non sarebbero felici di vederla traballare sotto la spada di Damocle della Brexit.

    Non è vero, Onorevole?

    Certamente, ma a dirle la verità nel momento stesso in cui ho appreso la notizia dell’assassinio politico della deputata Cox ho considerata chiusa la partita: trionferà il remain (l’omicida ha gridato “Britain first”, ndr). La campagna pro brexit è in buona parte alimentata da sentimenti irrazionali, dalla speranza che i vantaggi di un’uscita sorpassino il rischio di trovarsi di fronte a uno scenario di disordine e caos. Un fatto come questo facilmente guasta lo slancio, compromette l’euforia. Riguardo il dibattito fra federalisti e funzionalisti alle origini dell’Unione, non bisogna vederli come fondamentalmente alternativi. È vero: i primi spingevano per un’integrazione immediata e coraggiosa, piuttosto che graduale come i secondi. Ma l’obiettivo era in ogni caso l’integrazione politica, gli Stati Uniti d’Europa se vuoi dirla con Churchill. La differenza stava nella strategia, non nell’obiettivo, e alla fine la visione funzionalista ha prevalso. La Brexit, oltre che l’errore di anteporre l’unione monetaria a quella politica, ne rivela il parziale fallimento.

    La campagna pro Brexit si nutre soltanto di elementi irrazionali, romantici?

    No, assolutamente no. C’è anche una questione democratica che in qualche misura condivido. I paesi europei stanno perdendo la loro sovranità popolare sull’altare di un’unione che non riesce a riproporla a livello unitario, visto che manca l’unione politica. In Inghilterra esiste anche un euroscetticismo di sinistra, che ha seguito molto da vicino la questione greca e non sopporta come l’Unione sia tale soltanto dal punto economico-finanziario. Un’unione che garantisce uno spazio di libero scambio e circolazione delle merci ma non delle persone. Che non sia in grado di aiutare un paese membro in crisi. Insomma, io spero molto che alla fine il voto sia favorevole al remain, ma spero anche che esso non giustifichi tendenze autoassolutorie da parte delle élite europee. Mi piacciono le analisi storiche di sguardo lungo, secondo cui quello dell’euroscetticismo inglese è un problema antico, ma questo referendum e la crescita dell’euroscetticismo in generale sono anche causati da circostanze di mala politica contingenti. E la rinegoziazione del ruolo dell’Inghilterra nell’Unione, trattata da David Cameron e Donald Tusk, va anch’essa nella direzione sbagliata.

    Diversi personaggi storici inglesi vengono rivendicati sia dai pro Brexit che dai pro remain, come Churchill e la Thatcher. Come lo spiega?

    È il destino di tutti i grandi personaggi: i contemporanei vogliono a tutti i costi portarseli dalla propria. Non c’è dubbio che Churchill avesse una visione europea all’indomani della seconda guerra mondiale, la convinzione che legare i paesi europei attraverso istituzioni comuni fosse il modo migliore per scongiurare nuove guerre. Ma ai pro Brexit non mancano argomenti e citazioni per farne un euroscettico, per esempio un discorso del 1950 in cui disse che il Regno Unito deve essere “intimamente associato” con gli altri paesi del continente ma mai divenire un “membro ordinario” di istituzioni comuni.

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