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    E se l’attacco Usa in Siria nascondesse un dialogo Trump-Putin?

    I missili statunitensi e la reazione contenuta dei russi non sembrano casuali se inseriti in un contesto più ampio. Il commento di Fulvio Scaglione

    Di Fulvio Scaglione
    Pubblicato il 7 Apr. 2017 alle 16:21 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 17:50

    Se uno potesse credere a ciò che vede, dai 60 missili sparati dalle navi Usa contro una base aerea di Bashar al-Assad trarrebbe le seguenti conclusioni. Prima: Donald Trump non teme di precipitare il mondo nella terza guerra mondiale. Seconda: poiché Trump in una notte ha fatto più danni ad Assad di quanti ne abbia fatti Obama all’Isis in due anni e mezzo, la guerra di Obama all’Isis era tutta una finta. Terza: la presidenza Trump è già finita, perché l’attacco contro Assad (e di riflesso contro la Russia) va contro tutto ciò che il tycoon aveva annunciato durante la campagna elettorale.

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    Per esempio, la priorità assoluta nella lotta contro il terrorismo, che invece esce rafforzato da questa vicenda. Non a caso esultano i paesi come l’Arabia Saudita, grandi sponsor dell’Isis e di altre formazioni stragiste, e si rallegrano i gruppi qaedisti della provincia di Idlib, che hanno preso il sopravvento sull’Esercito libero siriano e sulle formazioni dei “ribelli moderati”.

    Di queste conclusioni, la numero due è scontata: è chiaro da tempo che i bombardamenti della coalizione americo-saudita di 67 Paesi, così belli, pulitini e inutili, erano una messinscena per i gonzi. Quando hanno cominciato a fare sul serio, a Mosul, i raid Usa hanno provocato centinaia di vittime civili, proprio come i siriani e i russi ad Aleppo, però godendo del silenzio complice di media e attivisti vari.

    La numero tre è assai probabile: Trump ha bombardato la Siria anche e soprattutto per scuotersi di dosso la fama, abilmente cucitagli addosso dai democratici insieme con i servizi segreti, di presidente succube della Russia e troppo amico (se non compagno di merende) di Vladimir Putin.

    La prima conclusione, invece, appartiene alla lunga lista delle drammatizzazioni a uso consolatorio. Tutto lo svolgimento della vicenda, al contrario, fa pensare a una regia ben congegnata per disinnescare una crisi potenzialmente più grave. Un isolato aereo siriano attacca un centro occupato dai ribelli nella provincia di Idlib; immediata parte l’accusa sulle armi chimiche con relativo sdegno del mondo libero e civile; segue dibattito all’Onu; arrivano i missili americani.

    Incursione chirurgica e limitata, di cui l’apparato di sicurezza russo era ovviamente a conoscenza prima che si realizzasse. Ventiquattr’ore, scandite con precisione svizzera. Il tutto mentre, per esempio, la Russia riconosce a Israele (a sua volta entusiasta del bombardamento americano, dopo aver in prima persona colpito più volte la Siria) il diritto a fare di Gerusalemme Ovest la capitale del proprio Stato. Per aver solo accennato a questa ipotesi, Donald Trump era stato crocefisso dai benpensanti dei cinque continenti.

    Dunque: che cosa succede davvero in Siria? Si è detto spesso che laggiù si combatte un segmento di quella “terza guerra mondiale a pezzetti” di cui parlò, con un’immagine fulminante, papa Francesco. Forse è una buona idea, allora, inserire anche questa crisi così teatrale in un contesto più ampio. È fantascienza ipotizzare che l’attacco così precisino degli americani e la reazione così contenuta dei russi (per non parlare di non reazione) siano non casuali ma voluti? E nascondano, o per meglio dire certifichino, una complessa prova di dialogo che procede sotterranea? 

    Guardiamoci intorno. In Ucraina, Poroshenko e i suoi hanno cercato invano di far risalire la tensione, trovando scarsa sponda nella Washington di Trump senza incidere sui nervi del Cremlino. Nell’Africa del Nord il ruolo della Russia cresce e la partnership con l’Egitto, anche nella regolazione del caos in Libia per il tramite del generale Haftar, che ha molto più potere del premier Al Farraj riconosciuto dall’Onu, non può più essere ignorata.

    Su Israele, pur tra mille distinzioni, si registra un’oggettiva convergenza tra Trump e Putin. Sia Russia sia Usa hanno un problema con la Turchia per l’appoggio che entrambi forniscono ai curdi. In Iraq (che sta agli Usa come la Siria sta alla Russia) gli americani devono confrontarsi con l’irredentismo curdo che vuol prendersi anche Kirkuk, con il rischio di far saltare tutto e creare loro un problema grave, anche se per ragioni opposte, sia con l’Iran, grande sponsor del Governo sciita di Baghdad, sia con la Turchia (a Erdogan va il sangue agli occhi quando sente parlare di rafforzare i curdi).

    In Siria, infine, il Cremlino sa di aver già portato a casa, dal punto di vista della rendita politica, tutto il possibile. I progetti americani e sauditi sono falliti ma la pace è assai lontana, forse irraggiungibile, vista la quantità inesauribile di aspiranti kamikaze e di petrodollari per finanziarli. Le trattative di pace, siano quelle di Ginevra siano quelle di Astana, sembrano quasi solo un esercizio di buona volontà. Insomma, per la Russia d’ora in poi sono solo grane. 

    Anche qui bisognerà prima o poi trovare un accordo internazionale, perché un vero stop alle ostilità arriverà solo per quella via. E un accordo con sauditi, americani e turchi potrà passare, alla fin fine, solo sacrificando Assad. È lui il vero perdente di questi giorni. Forse l’unico.

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