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    In Arabia Saudita se sei donna puoi fare tutto, se un uomo te lo concede

    Credit: AFP

    In Arabia Saudita qualsiasi attività, dalla più banale alla più seria, richiede l'approvazione di un uomo

    Di Futura D'Aprile
    Pubblicato il 8 Gen. 2019 alle 11:53 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 20:21

    La narrazione dell’Arabia Saudita e dei diritti concessi (e non) alle donne nel Regno è spesso mutevole. Se da una parte si trovano elogi entusiasti del principe ereditario per aver permesso alla componente femminile dell’Arabia di guidare, dall’altra ci sono le denunce delle attiviste incarcerate e torturate.

    Perché alle donne non è concesso lottare per i propri diritti, né reclamarli ad alta voce. Tutto quello che possono fare è attendere che vengano loro elargiti da una società patriarcale che si regge sulla “tutela maschile”.

    In base a questo sistema, una donna può esercitare la propria “libertà” solo dietro il consenso di uno dei membri maschili della sua famiglia.

    Qualsiasi attività, dalla più banale alla più seria, richiede l’approvazione di un uomo: le donne da sole non possono richiedere un passaporto, viaggiare fuori dal paese, studiare all’estero con una borsa di studio, sposarsi, lasciare la prigione e nemmeno lasciare un rifugio per donne vittime di abusi.

    La sharia – Da cosa deriva il sistema della tutela maschile? Le autorità saudite affermano che il primato dell’uomo sulla donna è stabilito dal Corano secondo cui “gli uomini sono i protettori delle donne, perché Dio ha dato loro più forza rispetto alle altre”.

    Bisogna considerare che nel Regno saudita vige un’interpretazione ortodossa (detta anche wahabita) della religione e le regole della società araba sono dettate dalla sharia (o legge islamica).

    Le punizioni per chi cerca di ribellarsi al sistema maschilista saudita sono esemplari.

    Nel 2008, per esempio, l’attivista Samar Badawi aveva lasciato la sua famiglia per sfuggire agli abusi psicologici del padre e aveva cercato di togliere al genitore la patria potestà su di lei. Per tutta risposta, le autorità hanno accolto la richiesta del padre, che l’aveva accusata di “disobbedienza”, e hanno incarcerato la ragazza per 7 mesi.

    Nel 2017, invece, Dina Ali Lasloom aveva cercato di scappare in Australia passando per la Thailandia per non sfuggire al matrimoni combinato che la sua famiglia le aveva imposto. Human Right Watch ha seguito il caso della donna, ma da mesi non ha più sue notizie.

    Il caso di Rafah – Più recente invece la vicenda di Rafah Mohammed al-Qunun, una ragazza che il 7 gennaio 2019 si era barricata in una camera d’albergo di Bangkok, in Thailandia, temendo per la sua vita.

    La 18enne ha raccontato tramite i social di essere riuscita a scappare dai parenti durante una visita in Kuwait insieme alla famiglia e ha anche accusato i familiari di essere responsabili di abusi fisici e psicologici nei suoi confronti.

    Rafah è riuscita a mettersi in contatto con le autorità delle Nazioni Unite, che hanno convinto il governo thailandese a concedere un asilo provvisorio alla ragazza.

    La Supercoppa – Del sistema discriminatorio che vige in Arabia Saudita si è tornato a parlare in Italia in riferimento alla Supercoppa.

    Per la partita tra Juve e Milan che si disputerà il 16 gennaio a Jeddah i posti alla stadio non sono uguali per tutti: da una parte c’è il settore riservato agli uomini e dall’altra quello per le famiglie dove possono accedere anche le donne. I biglietti si suddividono in “singles”, quelli per soli uomini, e uno per “families“, per tutta la famiglia, e quindi anche per le donne, ma accompagnate.

    Anche in questo caso bisogna fare una precisazione: mentre adesso in tanti si indignano per questa differenza tra i posti, solo qualche mese fa il regno aveva ricevuto il plauso internazionale per aver eliminato il divieto alle donne di accedere allo stadio.

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