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    Perché l’Isis non è ancora stato espulso da Sirte?

    L'analisi di Amedeo Ricucci sul perché Sirte, roccaforte libica del sedicente califfato, non è ancora caduta nonostante le disparità delle forze in campo

    Di TPI
    Pubblicato il 12 Ott. 2016 alle 10:08 Aggiornato il 10 Set. 2019 alle 22:55

    “Potremmo chiudere la partita anche domani. Ma abbiamo già pagato un prezzo altissimo”. Sono le parole, raccolte a Sirte, di Ismail Shoukri, il capo dell’intelligence militare di Misurata. E racchiudono, nel linguaggio opaco dei servizi segreti, tutto il non detto di questa battaglia contro la roccaforte dell’Isis in Libia che va avanti da ormai cinque mesi e la cui fine, più volte annunciata, sembra dipendere più da scelte politiche che da considerazioni militari.

    Sul terreno, infatti, le forze sono impari e l’esito appare scontato: da un lato un centinaio di fanatici jihadisti, i superstiti dei 2.000-2.500 che si erano stabiliti lo scorso anno nella città natale di Gheddafi, e dall’altra diverse migliaia di miliziani delle brigate di Misurata, rafforzate da contingenti arrivati da Tripoli, oltre che dalle forze del generale Khalifa Haftar, che premono da est.

    È vero che i miliziani dell’Isis rimasti intrappolati a Sirte (quasi tutti stranieri: tunisini, egiziani, sudanesi e nigeriani, soprattutto) sono degli ottimi cecchini, sanno usare alla perfezione le autobombe e hanno minato tutta la città, piazzando trappole esplosive a ogni angolo di strada e dentro ogni casa.

    Ma è vero anche che i bombardamenti americani, 170 raid in due mesi, ne hanno ridotto drasticamente le capacità offensive. E l’alto numero di perdite fra gli shebab di Misurata, oltre 550 morti e più di 3.000 feriti, è da ascrivere più che altro all’imperizia tattica delle milizie libiche: com’è dimostrato anche dalla facilità con cui centinaia di jihadisti sono riusciti a fuggire da Sirte, via terra e via mare, prima che la tenaglia degli attaccanti si chiudesse per bene.

    Rispetto a Kobane, Tikrit e Falluja, vale a dire le tre città più importanti sottratte all’Isis in Siria e in Iraq nel corso degli ultimi due anni, la riconquista di Sirte ha un alto valore simbolico, ma un valore politico e militare assai minore sul piano del contrasto al terrorismo.

    Infatti, se anche l’Isis ha dovuto rinunciare alla sua “terza” capitale (dopo Raqqa e Mosul c’era, appunto, Sirte), ha già spostato il suo baricentro d’azione, se pur ridimensionandolo, verso le aree interne della Libia, dove gode per ora della protezione delle tribù più refrattarie al nuovo corso istituito in Libia con la Rivoluzione del 17 febbraio, e verso il confine con la Tunisia, nell’area di Ben Guerdane e ancora più a sud.    

    In ogni caso la caduta di Sirte è una questione di giorni, al massimo di settimane. Per essere più chiari: il tempo che serve ai leader politici e militari di Misurata per poter ricavare il massimo beneficio politico dalla spallata finale.

    A dire il vero, le voci raccolte fra i comandanti di brigata a Sirte legano la tempistica di questa offensiva finale all’inaugurazione dell’ospedale da campo che l’Italia sta costruendo a Misurata. Come a volerne legittimare la necessità e, soprattutto, in modo da infittire la ragnatela degli appoggi internazionali di cui la città oggi gode e che le garantiscono un’influenza senza pari.

    A frenare sui tempi dell’offensiva finale sono poi i contrasti politici sorti all’interno della leadership di Misurata sull’appoggio al governo guidato da Fayez Serraj, che appare sempre più in difficoltà. Col risultato che, ancora una volta, il contrasto al terrorismo viene subordinato al “risiko” delle alleanze politiche interne.

    Era già successo in passato, tant’è che l’espansione dell’Isis in Libia è stata ampiamente sottovalutata, per anni. E la guerra al sedicente Stato islamico è diventata un cavallo di battaglia del governo di Tripoli, e poi del governo Serraj, solo quando è apparsa evidente la possibilità di sfruttare l’occasione per uscire dall’isolamento internazionale in cui il paese, con i suoi due governi contrapposti, era precipitato. Con la battaglia di Sirte sono stati ottenuti sia aiuti militari che appoggi politici internazionali. Ma non è bastato.

    — L’analisi è stata pubblicata da ISPI con il titolo “Libia: La presa di Sirte non è un atto militare ma politico” e ripubblicata in accordo su TPI con il consenso dell’autore

    *Amedeo Ricucci è un giornalista Rai

    Leggi l'articolo originale su TPI.it
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